«…Vieni giù dal pero!!!…»
«…Vola basso e schiva il sasso!!!…»
«…Parla come mangi!!!...».
«…Frena, Ugo!!!… »
Vi è mai capitato, mentre eravate intenti a leggere un libro, a vedere uno spettacolo a teatro oppure ad ascoltare un brano musicale, di esclamare fra voi e voi una di queste espressioni, pescando a caso dal vostro “repertorio allegorico”?
Niente paura: se è successo così, non è che siete stati colti inusitatamente da gravi avvisaglie della sindrome di Davide Mengacci.
In misura molto più rassicurante, vi avrà forse preso un momentaneo moto di rifiuto nei riguardi della “sacerdotalizzazione” dell’arte.
Oppure, se volete vedere la faccenda da un’altra angolazione: quel tale artista alla cui opera vi stavate in quel momento avvicinando, vi aveva eccessivamente rotto i codici.
Ogni forma artistica comporta un addentrarsi nella dimensione del sacro: l’opera d’arte è un tempio al quale si accede con le modalità di un rituale celebrato dall’artista nelle vesti di sacerdote, di fronte ad un pubblico disposto nei pressi dell’altare.
La dimensione dell’arte introduce uno stato di sospensione rispetto al flusso comune dell’esistere: tra artista e pubblico si impone una complicità, un mettersi fra parentesi rispetto agli usuali termini del rapportarsi sociale, civile, umano in genere. E’ questo il sacro dell’arte.
In tal senso, arte e gioco sono modalità esistenziali situate in una speciale terra di nessuno, parallela rispetto alla vita reale ordinaria. Prima ancora della “suspension of disbeliefe” richiesta da certi tipi di narrazione, l’arte in genere esige una “suspension of life as we know it” (…ehm…non so se si è colta la R.E.M. citazione…).
Tuttavia, a differenza dei rituali in senso stretto, che comportano ripetitività di formule e linguaggi rigorosamente codificati, l’opera d’arte consiste in un rituale di tipo aperto.
Anzi, si può dire che l’essenza del rito celebrato dall’arte risieda proprio nella frattura dei codici comunemente accettati.
Cosa succede però quando questa frattura è eccessiva rispetto alla capacità del pubblico di assorbirla?
Interviene una sorta di rigetto artistico che può spaziare dai minimi di un atteggiamento di lieve fastidio, ai fasti di una vera è propria “ribellione estetica”.
Mi è capitata una cosa simile di recente.
Dato che un po’ mi conoscete, avrete già capito che nel mio caso non c’è stata gran ribellione, ma solo un soffuso cenno di pudico e rispettoso tintinnio di “maroni” leggermente appesantiti fra le gambe.
Avevo provato ad iniziare “La casa verde”, romanzo di Mario Vargas Llosa, scrittore che in altre sue opere, come “I quaderni di don Rigoberto”, “Diario di una ragazza cattiva”, “Pantaleon e le visitatrici”, “Zia Julia e lo scribacchino”, avevo apprezzato veramente tantissimo.
Ma stavolta non c’è stato verso di mandarlo giù.
Un misto di “stream of consciousness” e trovate sperimentali che fondevano narrato e dialoghi, con personaggi nuovi che sbucavano fuori da ogni dove senza la gentilezza di portare con sé uno straccio di presentazione, mi hanno indotto a valermi di quel diritto del lettore, sancito da Pennac, di abbandonare un libro al suo destino senza averlo finito.
La sacralità dello scrittore, in questi casi, pare ammantarsi della sacralità aggiuntiva dell’ubriaco (con tutto rispetto per lo scrittore e per l’ubriaco). Oppure del pazzo (rispetti e lodi pure a lui).
Cerchi di scuoterlo, di scrollarlo, di fargli bere caffè, per farlo uscire dal codice di incomunicabilità che il suo status di ebbrezza artistica ha frapposto fra te e lui.
Un po’ ti può aiutare andare a leggere cosa ti dice nella prefazione scritta appositamente a margine del romanzo per spiegarne il senso e le modalità espressive.
Ma è tutto inutile, perché se ti rincuori un attimo scoprendolo lucido e “giù dal pero” in quel frangente, non eviti il fatto di doverlo poi ritrovare perfetto nella sua forma ubriaca, sul ramo più alto del pero, quando ritorni alla narrazione romanzesca vera e propria.
Così, ben sapendo che lui è un narratore con la NARRA maiuscola e tu solo un piccolo lettore (con le ore minuscole), non ti resta che attendere un’altra epoca della tua vita, quando forse l’esperienza ti avrà fornito di quei codici necessari, o del vino adatto, per entrare in quel suo mistero estetico che per ora non puoi far altro che lasciar decantare fra le sacre faccende da ubriachi.
«…Vola basso e schiva il sasso!!!…»
«…Parla come mangi!!!...».
«…Frena, Ugo!!!… »
Vi è mai capitato, mentre eravate intenti a leggere un libro, a vedere uno spettacolo a teatro oppure ad ascoltare un brano musicale, di esclamare fra voi e voi una di queste espressioni, pescando a caso dal vostro “repertorio allegorico”?
Niente paura: se è successo così, non è che siete stati colti inusitatamente da gravi avvisaglie della sindrome di Davide Mengacci.
In misura molto più rassicurante, vi avrà forse preso un momentaneo moto di rifiuto nei riguardi della “sacerdotalizzazione” dell’arte.
Oppure, se volete vedere la faccenda da un’altra angolazione: quel tale artista alla cui opera vi stavate in quel momento avvicinando, vi aveva eccessivamente rotto i codici.
Ogni forma artistica comporta un addentrarsi nella dimensione del sacro: l’opera d’arte è un tempio al quale si accede con le modalità di un rituale celebrato dall’artista nelle vesti di sacerdote, di fronte ad un pubblico disposto nei pressi dell’altare.
La dimensione dell’arte introduce uno stato di sospensione rispetto al flusso comune dell’esistere: tra artista e pubblico si impone una complicità, un mettersi fra parentesi rispetto agli usuali termini del rapportarsi sociale, civile, umano in genere. E’ questo il sacro dell’arte.
In tal senso, arte e gioco sono modalità esistenziali situate in una speciale terra di nessuno, parallela rispetto alla vita reale ordinaria. Prima ancora della “suspension of disbeliefe” richiesta da certi tipi di narrazione, l’arte in genere esige una “suspension of life as we know it” (…ehm…non so se si è colta la R.E.M. citazione…).
Tuttavia, a differenza dei rituali in senso stretto, che comportano ripetitività di formule e linguaggi rigorosamente codificati, l’opera d’arte consiste in un rituale di tipo aperto.
Anzi, si può dire che l’essenza del rito celebrato dall’arte risieda proprio nella frattura dei codici comunemente accettati.
Cosa succede però quando questa frattura è eccessiva rispetto alla capacità del pubblico di assorbirla?
Interviene una sorta di rigetto artistico che può spaziare dai minimi di un atteggiamento di lieve fastidio, ai fasti di una vera è propria “ribellione estetica”.
Mi è capitata una cosa simile di recente.
Dato che un po’ mi conoscete, avrete già capito che nel mio caso non c’è stata gran ribellione, ma solo un soffuso cenno di pudico e rispettoso tintinnio di “maroni” leggermente appesantiti fra le gambe.
Avevo provato ad iniziare “La casa verde”, romanzo di Mario Vargas Llosa, scrittore che in altre sue opere, come “I quaderni di don Rigoberto”, “Diario di una ragazza cattiva”, “Pantaleon e le visitatrici”, “Zia Julia e lo scribacchino”, avevo apprezzato veramente tantissimo.
Ma stavolta non c’è stato verso di mandarlo giù.
Un misto di “stream of consciousness” e trovate sperimentali che fondevano narrato e dialoghi, con personaggi nuovi che sbucavano fuori da ogni dove senza la gentilezza di portare con sé uno straccio di presentazione, mi hanno indotto a valermi di quel diritto del lettore, sancito da Pennac, di abbandonare un libro al suo destino senza averlo finito.
La sacralità dello scrittore, in questi casi, pare ammantarsi della sacralità aggiuntiva dell’ubriaco (con tutto rispetto per lo scrittore e per l’ubriaco). Oppure del pazzo (rispetti e lodi pure a lui).
Cerchi di scuoterlo, di scrollarlo, di fargli bere caffè, per farlo uscire dal codice di incomunicabilità che il suo status di ebbrezza artistica ha frapposto fra te e lui.
Un po’ ti può aiutare andare a leggere cosa ti dice nella prefazione scritta appositamente a margine del romanzo per spiegarne il senso e le modalità espressive.
Ma è tutto inutile, perché se ti rincuori un attimo scoprendolo lucido e “giù dal pero” in quel frangente, non eviti il fatto di doverlo poi ritrovare perfetto nella sua forma ubriaca, sul ramo più alto del pero, quando ritorni alla narrazione romanzesca vera e propria.
Così, ben sapendo che lui è un narratore con la NARRA maiuscola e tu solo un piccolo lettore (con le ore minuscole), non ti resta che attendere un’altra epoca della tua vita, quando forse l’esperienza ti avrà fornito di quei codici necessari, o del vino adatto, per entrare in quel suo mistero estetico che per ora non puoi far altro che lasciar decantare fra le sacre faccende da ubriachi.
4 commenti:
a me succede ogni tanto che un libro mi provochi esattamente questo tipo di sensazione, solo che essendo più a sud di te dico e penso altre frasi (madò che palle! ma mo che vole questo, sono le più frequenti). chiudo e forse un giorno riaprendolo lo amerò... (siessi dice blogspot... ma rendiamoci conto!)
ehehhee...vero, Farly...non potevo enunciare tutte le espressioni "abbandonalibresche", ma ce ne sono tante e poi ognuno le declina a suo piacimento :-)
Pensa che a me questa cosa è successa con "Cent'anni di solitudine", uno dei miei libri preferiti di sempre, ma che in prima battuta non riuscivo a digerire...dopo un po' di tempo, non solo lo ho amato, ma è stata veramente un'esperienza estetica tra le più intense che abbia mai provato...
a me oggi dice surnis: sarà un tipo di gatto dell'antichità latina? :-)
a proposito: urge rinfocolare paroleincerca :-)
switic* gilly, per paroleincerca mi ci vorrebbe o l'influenza o una vacanza :-) cent'anni di solitudine l'ho letto la prima volta da adolescente, in italiano, poi in spagnolo, poi di nuovo in italiano ... alla quarta lo mollai a metà :-D bello in modo appassionante ...
*switic lo dice blogspot ...
beh, direi che tre letture e mezza sono una buonissima prova di fedeltà ad un romanzo :-)
per paroleincerca no te preocupe, come sempre si fa quando si può e per divertimento :-)
reppe dice ora...e non sto nemmeno a spiegarti che si tratta di una forma di rap partenopeo interpretato dai "Rage Against the Tarantell" :-)
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