«…Era lei la donna che volevo per essere chiamato col mio nome…» cantava qualche tempo fa il buon Angelo Branduardi, passeggiando là nella landa, proprio sotto il tiglio.
Questo verso potrà forse suonare alquanto banale, ma a me ha sempre “parlato” parecchio. Io non considero per nulla banale il fatto di essere chiamato col mio nome. E ancor meno scontato, con il mio cognome.
Pur disponendo di un nome e di un cognome del tutto ordinari (forse solo il cognome sfocia su un lieve sfumatura buffa), ci ho messo anni ad abituarmi all’idea di essere proprio io la persona che corrisponde a quei due suoni.
E anche adesso, devo dire, il biunivoco sostegno che intercorre fra il mio essere e quella sequela di sillabe non mi suona ancora poi così liscio.
«…Io sono quel suono lì…»: una considerazione del genere mi ha sempre lasciato dentro un gusto di estraniamento. Soprattutto da bambino.
Nell’atto del nominare è racchiusa forse una delle caratteristiche più profonde della nostra essenza umana. Non a caso, nella Genesi si narra come Dio concedesse ad Adamo il privilegio di dare il loro nome agli elementi dell’Eden:
Dio è Uno.
E come tale non aveva bisogno di conoscere il nome delle cose, perché non c’erano altri Dei con cui fare due chiacchiere sul tempo o sulle sfumature della tinta dei fiori.
Adamo invece aveva bisogno dei nomi delle cose.
Di lì a poco sarebbe arrivata Eva e il fatto di “possedere” i nomi delle cose avrebbe dato alla coppia la speculare facoltà di “possedere” il mondo sintetizzato e comunicabile, nei e fra i propri cuori, nelle e fra le proprie menti.
Ma questo c’entra forse poco coi miei turbamenti di bimbo nominato. O forse c’entra. Boh…
In ogni caso, le sensazioni che mi pare di poter rilevare in merito sono due.
Una è che con il passare degli anni, un minimo di consolidamento della mia personalità sembra sia andato di pari passo con la crescente consapevolezza di essere proprio io quel tale che si intende quando sento chiamare “X Y”.
L’altra impressione riguarda invece più propriamente il periodo infantile e si è mantenuta tale negli anni. Quando consideravo (e considero) fra me e me il mio nome, preso come parola di per sé, mi faceva (e mi fa) due impressioni diverse, a seconda che lo pensassi (e lo pensi) “indossato” da me medesimo o da un’altra persona. Le vocali e le consonanti sono le stesse precise, messe nello stesso ordine sillabico spiaccicato identico, ma su di me oppure su di un altro, il mio nome lo sento diversissimo.
Il che mi offre la conferma di un’idea che mi è parso di intuire in diverse occasioni.
I nomi sono dotati di un loro aspetto “quantificabile” e di un altro più qualitativo, più inafferrabile e nascosto, quasi sacrale oserei dire. Oltre ad essere suoni che fendono l’aria o segnetti neri su fogli bianchi, i nomi posseggono una componente “genio-locale”, ossia assorbono il genius loci della persona o della cosa che sono chiamati a nominare.
E questo è proprio bello, se ci pensate bene.
Perché in questo modo ogni rosa è sempre una rosa, ma non è mai lo stesso fiore.
Così come ogni donna è sempre una donna, ma non è mai lo stesso condensato di mistero femminile.
Questo verso potrà forse suonare alquanto banale, ma a me ha sempre “parlato” parecchio. Io non considero per nulla banale il fatto di essere chiamato col mio nome. E ancor meno scontato, con il mio cognome.
Pur disponendo di un nome e di un cognome del tutto ordinari (forse solo il cognome sfocia su un lieve sfumatura buffa), ci ho messo anni ad abituarmi all’idea di essere proprio io la persona che corrisponde a quei due suoni.
E anche adesso, devo dire, il biunivoco sostegno che intercorre fra il mio essere e quella sequela di sillabe non mi suona ancora poi così liscio.
«…Io sono quel suono lì…»: una considerazione del genere mi ha sempre lasciato dentro un gusto di estraniamento. Soprattutto da bambino.
Nell’atto del nominare è racchiusa forse una delle caratteristiche più profonde della nostra essenza umana. Non a caso, nella Genesi si narra come Dio concedesse ad Adamo il privilegio di dare il loro nome agli elementi dell’Eden:
…Poi Dio disse: «Non è bene che l'uomo sia solo; io gli farò un aiuto che sia adatto a lui». Dio, avendo formato dalla terra tutti gli animali dei campi e tutti gli uccelli del cielo, li condusse all'uomo per vedere come li avrebbe chiamati, e perché ogni essere vivente portasse il nome che l'uomo gli avrebbe dato. L'uomo diede dei nomi a tutto il bestiame, agli uccelli del cielo e ad ogni animale dei campi; ma per l'uomo non si trovò un aiuto che fosse adatto a lui. Allora Dio fece cadere un profondo sonno sull'uomo, che si addormentò; prese una delle costole di lui, e richiuse la carne al posto d'essa. Dio, con la costola che aveva tolta all'uomo, formò una donna e la condusse all'uomo. L'uomo disse: «Questa, finalmente, è ossa delle mie ossa e carne della mia carne. Ella sarà chiamata donna perché è stata tratta dall'uomo». Perciò l'uomo lascerà suo padre e sua madre e si unirà a sua moglie, e saranno una stessa carne. L'uomo e sua moglie erano entrambi nudi e non ne avevano vergogna…
Dio è Uno.
E come tale non aveva bisogno di conoscere il nome delle cose, perché non c’erano altri Dei con cui fare due chiacchiere sul tempo o sulle sfumature della tinta dei fiori.
Adamo invece aveva bisogno dei nomi delle cose.
Di lì a poco sarebbe arrivata Eva e il fatto di “possedere” i nomi delle cose avrebbe dato alla coppia la speculare facoltà di “possedere” il mondo sintetizzato e comunicabile, nei e fra i propri cuori, nelle e fra le proprie menti.
Ma questo c’entra forse poco coi miei turbamenti di bimbo nominato. O forse c’entra. Boh…
In ogni caso, le sensazioni che mi pare di poter rilevare in merito sono due.
Una è che con il passare degli anni, un minimo di consolidamento della mia personalità sembra sia andato di pari passo con la crescente consapevolezza di essere proprio io quel tale che si intende quando sento chiamare “X Y”.
L’altra impressione riguarda invece più propriamente il periodo infantile e si è mantenuta tale negli anni. Quando consideravo (e considero) fra me e me il mio nome, preso come parola di per sé, mi faceva (e mi fa) due impressioni diverse, a seconda che lo pensassi (e lo pensi) “indossato” da me medesimo o da un’altra persona. Le vocali e le consonanti sono le stesse precise, messe nello stesso ordine sillabico spiaccicato identico, ma su di me oppure su di un altro, il mio nome lo sento diversissimo.
Il che mi offre la conferma di un’idea che mi è parso di intuire in diverse occasioni.
I nomi sono dotati di un loro aspetto “quantificabile” e di un altro più qualitativo, più inafferrabile e nascosto, quasi sacrale oserei dire. Oltre ad essere suoni che fendono l’aria o segnetti neri su fogli bianchi, i nomi posseggono una componente “genio-locale”, ossia assorbono il genius loci della persona o della cosa che sono chiamati a nominare.
E questo è proprio bello, se ci pensate bene.
Perché in questo modo ogni rosa è sempre una rosa, ma non è mai lo stesso fiore.
Così come ogni donna è sempre una donna, ma non è mai lo stesso condensato di mistero femminile.
4 commenti:
non mi ricordo se in in anima hillman parla del nominare o se è in un altro suo libro, anche g. bateson parlava del potere dei nomi. nominare è rendere reale, dare un nome ad un figlio è attaccargli addosso un destino e un compito secondo alcuni. a me hanno dato 3 nomi, tre destini e un'identità multipla... che fatica! così mi sono scelta il mio di nome e come farlocca mi ci trovo bene :-)
dimenticavo, questo post fluiva bene davvero... gustoso, pastoso come un buon vino, mi complimento (prostria dice il solito molto appropriatamente)
eheheeehhe...Grazie, Farly...gongolo qual gioiosa gondola quando mi dici tutte queste belle parole :-)
un'altra cosa pearente del nominare è il creare gerghi...qualche volta ci scrivo su qualcosa, se capita :-) le amicizie, gli amori, gli affetti, molto spesso, se non quasi sempre, vanno di pari passo con la creazione di parole in codice da parte delle persone coinvolte,che si mettono quasi a parlare una loro lingua privata dentro la lingua ufficiale, quasi a delimitare un proprio territorio esclusivo...bello anche questo :-)
Grazie ancora dei super complimenti: paragonare il mio scrivere al vino è una delle cose più belle che mi sia stata detta :-)
nogam :-)
ah...Farly...non so se Hillman ne parla della faccenda del nominare...può darsi, ma non ci sono ancora arrivato nella lettura :-) se ne parla, te lo dico...dicalo, secondo blogspot :-)
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