lunedì 9 marzo 2009

Quando avevo la lana sulla pelle (…e il cotone nelle orecchie)


Quando si è giovincelli, parecchio giovincelli, si hanno tante idee confuse.

Una di queste idee in particolare, credo sia comune a tutti i giovincelli, nessuno escluso. Ricordo di esserne stato affetto pure io, anche se in misura non gravissima.
Parlo del gregariato, del pecoronaggio, della mania emulativa, della gratificazione che credi di ricevere in cambio, dal fatto di sentirti parte di un gruppo.
Per le mie caratteristiche umane, ho sempre faticato a legare con la comitiva di turno: la squadretta di calcio, gli amici del corso di pattinaggio o quelli della briscola al bar, la compagnia dei più bulli della classe o quella dei secchioni, ecc. Da giovincelli si indulge facilmente alla stupidità: pur di aggregarsi, ci si “ammastella” ovunque, senza badare agli schieramenti in campo.
Per il mio campagnolismo poi, le cose si aggravarono quando iniziai le scuole superiori in città. Basti dire che quando i miei nuovi compagni di classe mi chiedevano da che parte saltavo fuori, io rispondevo gentilmente, ma non crediate fosse una sensazione piacevolissima vedere dipingersi sui loro visi uno stupore sconfinato, come se, invece di aver pronunciato il nome del mio remoto villaggetto, avessi citato una sperduta località dell’Africa Nera.
Tale e tanta era (ed è tutt’oggi) la notorietà goduta dal mio paesello fra gli amici cittadinotti.

Insomma, fin qui niente di nuovo, sto parlando di un’esperienza probabilmente familiare a tantissime persone.
La cosa che mi ha invece leggermente esaltato oggi, andando per pensieri, è stato considerare come allora non mi rendessi conto di quanto fossi fortunato.
Ma come? Avevo il privilegio di poter rimanere distinto da aggregazioni banalizzanti varie, e quasi quasi, pure me ne dispiacevo? Ma che fesso che ero.
Non solo: non avevo nemmeno capito che il mio passaggio in città aveva comportato effettivamente una promozione in grado. Il mio paese, per quelli di città, “non esisteva”: quale miglior occasione per cogliere appieno tutti i vantaggi di una “fu-mattia-pascal-izzazione” della mia identità sociale?
Ma i primi barlumi di consapevolezza iniziavano a farsi strada in me proprio a quell’epoca. Da allora infatti, ad ogni mio rinnovato ingresso in nuovi micro-consessi civili (la compagnia del militare, quella dell’università e altre), mi sono sempre preoccupato con sommo scrupolo di aggregarmi agli individui più rigorosamente reputati come “perdenti” dall’opinione comune.
Ben conscio del fatto che venire sconfitti per eccesso di singolarità, di contro ad una “visione media” (per non dire “mediocre”) delle cose del mondo, è la migliore vittoria.

Ed oggi, laddove sento puzza di emulazione, olezzo di gente in competizione aggregativa al fine quasi univoco di escludere altri, se posso e se sono in grado, son lieto di ritrovarmi con gran soddisfazione perdente, scartato e felice.



4 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

:-) in loco in città mi aggregai anch'io a vari gruppetti... peccato che dopo un po' mi buttavano tutti fuori... ehm sarà per questo che abbiamo messo su un blog... da qui non ci butta fuori nessuno ;-)

Gillipixel ha detto...

ahahaha :-) vero Farly, sei sempre la più saggia!!! :-)
e poi il bello è che, in ogni modo, come dicevo in questo scrittesio (...non è diminutivo, a rigor grammaticale :-) l'esser buttati fuori dalla mediocritudo è cosa nobile e gratificante :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

'nsomma... da 15 quindicenne faceva un male! però poi si capisce che sei quel che sei e che come te ce ne sono altri e anche nessuno, ma che alla fine è possibile scambiarsi cose pure essendo delle singolarità :-)... examus dice blogspot in una crisi latinistica...

Gillipixel ha detto...

certo, Farly...lo so che a 15 anni fa male, ma quello che dici tu poi per fortuna lo si impara col tempo :-)
ovolim, mi dice a me, per rimanere in tema latinorum (olim = una volta)...l'uovo di una volta...che come si sa, è sempre migliore di quello di oggi :-D