Ebbene sì, carissimi amici viandanti per pensieri, alla fine è accaduto.
L’«Irreparabile» ha fatto il suo beffardo corso.
E’ bastata una sola mezza mattinata, perché il qui presente cantore degli idilli agresti, il qui scrivente fustigatore delle mode motoristiche, il qui “stracciante sfericità altrui” riguardo alla mala pianta del consumismo, bruciasse in un batter d’occhio un anno speso a pontificare e a lanciare strali intorno a queste tre tematiche cruciali.
«…Mi contraddico? Ebbene sì, mi contraddico, sono ampio, contengo moltitudini…» poetava qualche tempo fa il buon Walt Withman.
Ma allora cosa dovrei dire io, dopo quello che mi è successo stamattina: sono ampio, contengo petroliere?
Ma andiamo per ordine…venghino, sior siori venghino, che andiamo a cominciare: qui si narrerà la istoria completa del piccione e delle tre fave della contraddizione…bambino là in fondo stai bravo, non sparare le caccole in mezzo all’onorevole pubblico, che se no chiamo l’Uomo Nero…
Me ne andavo bel bello (va beh, nel mio caso calza più “brut brutto”…) stamattina in auto alla volta della città e già subodoravo qualcosa che non andava.
Le strade erano piuttosto sgombre, complice il clima vacanziero e l’orario per una volta non antelucano, tanto che iniziavo a preoccuparmi del fatto che stessi apprezzando una certa gradevolezza nell’atto del guidare.
«Ohibò…e che perfido maleficio sarà mai codesto?…io che reggo un volante con piacere?...», mi domandavo sospettoso.
Il sospetto cammin facendo si è tramutato in panico, constatando di man in mano che non stavo mandando alla malora nessuno dei radi automobilisti che incrociavo.
Di contro alle ottomilatrecentoventiquattro maledizioni nelle quali solitamente mi profondo ogni mattina ordinaria di viaggio lavorativo verso l’ufficio, in tutti i 30 km. del tragitto odierno mi sono concesso solo un bonario “ca’t végna un acìdént a té e a c’la vàca ad tù ma’…” all’indirizzo di un simpaticone che ad un incrocio in cui mi stavo per immettere, mi manifestava il suo preclaro diritto di occupare una corsia e mezza, anziché l’ordinaria semi-porzione di carreggiata prescritta ad ogni bastardo qualsiasi.
Ma il mio panico stupefatto si è a sua volta evoluto in sbalordimento generale una volta che ho fatto ingresso nelle strade abitualmente più trafficate della città.
Cosa non hanno visto i miei occhi…
Cittadini solitamente calcanti il pesante piedone della guerra automobilistica sull’acceleratore dei loro veicoli, che invece oggi parevano tutti dei lord Brummel del motore: gente che lasciava passare i pedoni col radiatore a fare l’inchino, precedenze rigorosamente interpretate, piccole curve e rotatorie prese su con cognizione.
Ci mancava poco che dai finestrini delle auto si vedessero spuntare le mani dei rispettivi conducenti protese nell’atto di offrire un Martini con tanto di oliva a ciascuno degli altri circolatori motorizzati.
Addirittura, nel mezzo di questo clima pastoral-viabilistico, ad un certo punto mi è quasi parso di vedermi affiancare da un tizio, che abbassando il finestrino mi annunciava: «Passa pure da casa mia se vuoi…ho lasciato mia moglie nel letto, uscendo…ha già fatto gli “anta” ma si mantiene un bijou e una botta la merita sempre…fai con comodo, non me la prendo per oggi…».
Ecco, forse non è andata proprio così e questo probabilmente l’ho solo immaginato, ma fatto sta che ad un certo punto mi son ritrovato ancora a considerare con orrore fra me e me: «…Ma lo sai che la città non mi dispiace?...».
Sì, signore e signori della corte, lo confesso: io, proprio io Egidio Calloni…ah no, ho sbagliato: questa era solo una reminiscenza dalle mie vetuste letture dei fondamentali periodici «Il Monello» e «L’Intrepido»…dicevo dunque, io, proprio io che da circa un anno vi tartasso le aiuole sproloquiando di campagnolismi assortiti, mi sono sorpreso in ammirata ed incoerente considerazione dell’ambiente urbano.
Ma il momento più gravemente contraddittorio della mia mattinata doveva ancora venire, perché poi, non pago del delirio di incoerenza in cui mi trovavo ormai a naufragare, mi sono recato niente meno che al Grande Centro Commerciale (mea culpa, mea maxima culpa…) e qui mi sono immolato sul gradino più altamente inutile della futilità consumistica.
Ho acquistato un oggetto, auto-persuadendomi che mi servirà per riporvi la macchina fotografica, ma ben consapevole in cuor mio del reale motivo iper-frivolo della compera.
L‘ho comprato solo perché non ho saputo resistere al “look da cartone animato” che promanava da questo coacervo di tela e vellutini.
Tanto che non saprei definirlo altrimenti che con un termine in stile “Merrie Melodies”: si tratta di una “borsinina” per la fotocamera (comunicazione di servizo:
Farly, mandami pure a casa il conto della pomata che dovrai procurarti per curare l’eczema causato da questo doppio diminutivo carpiato con avvitamento infantile).
La gravità del mio gesto la potete commisurare in proporzione di quanto riportato nell’immagine, ove l’oggetto rifulge in tutta la sua “borsininità”.
Lo sfalsamento dimensionale dato dal primissimo piano non vi tragga in inganno.
Fidatevi, è veramente una “borsinina”: 18 x 12 x 10 cm.
Non vi sembra quasi di vederla a tracolla di Bugs Bunny quella volta che doveva recarsi in vacanza a Pismo Beach facendo tappa a La Jolla?
Tra l’altro, una volta a casa mi sono accorto che il rito supremo dell’inutilità consumistica era completato dal fatto che la mia reflex nella “borsinina” ci sta dentro appena appena.
Diciamo che, anche in questo caso, la fotocamera ci entra, e giustamente, in maniera “cartoonistica”.
Infatti, quando si chiude il gancetto anteriore, la “borsinina” si inciccisce talmente che sembra quasi di immaginare la reflex là dentro pressata come Tom quando, al termine di un inseguimento con Jerry, si ritrova incastonato in un barattolo. Oppure, la sua gonfiezza ricorda lo stato in cui si ritrova Silvestro uscito da una centrifuga in lavatrice.
Insomma, è andata così, cari amici: mi sono reso colpevole di triplice contraddizione aggravata da futili motivi.
Ora per espiare dovrò studiarmi a memoria le «Bucoliche» di Virgilio, per poi andarle a recitare alla “Sagra del Cotechino Strabollito”, non senza aver introdotto la serata con «Il lamento della scavatrice» di Pasolini.
E per completare il mio atto di contrizione, prometto di visionare buona parte della filmografia di Akira Kurosawa, con qualche assaggio del «Decalogo» di Krzysztof Kieslowski (…voi riderete, ma la cosa più grave è che questa parte della penitenza L’HO GIÀ FATTA!!!)