mercoledì 2 dicembre 2009

Svenà!!!


La dimensione linguistica popolare possiede una forza evocativa il più delle volte preclusa agli ambiti della lingua codificata ufficialmente. Ci sono certi termini dialettali che recano con sé una capacità straordinaria di produrre significati, praticamente a ciclo continuo, quasi rinnovandosi incessantemente attraverso l’utilizzo vivo che i “parlanti” ne fanno. Questi termini, più che parole in sé e per sé, sono una sorta di metafore permanenti o, nei casi più preziosi, quasi dei “dispositivi poetici”.
Ecco, sono partito bello intellettuale, ma niente panico: torno subito a sbadilar pensieri nei sobborghi della mente.
Sì, perché mi sono reso conto che non sarei riuscito a mantenere lo stesso livello dell’incipit, quando ho pensato che oltre all’enunciato teorico di questo tema, avrei dovuto produrre anche qualche esempio concreto.
Qui infatti si presenta subito un ostacolo.
Un eventuale esempio dialettale sarebbe apprezzabile fino in fondo solamente da persone le quali conoscano sufficientemente bene lo specifico dialetto in questione. Questo perché le sfumature più sottili, le accezioni più profonde chiamate in causa dietro la facciata verbale principale, rischierebbero di andare inevitabilmente perdute, una volta spiegate a chi è estraneo a quell’idioma.

Esiste tuttavia una parola che casca a fagiolo per non lasciar perdere tutto il discorso. La sua particolarità è che si tratta di una parola in italiano, ma nel “laboratorio semantico” che coi miei amici teniamo vivo ormai da diversi anni, ci siamo divertiti a farle assumere tonalità di significazione multicromatiche e popolaresche quali si possono rinvenire solo nei vocaboli di impronta puramente vernacolare (“laboratorio semantico” per dirla in forma leggendaria; calato nella cruda realtà, suona invece così: “manica di ubriaconi”).
E’ insomma una parola italiana che noi debosciati “Fedeli di Bacco” abbiamo provveduto a colorare di dialetto.
La parola in questione è: “svenato” (in dialetto: “svenà”). E fin qui, niente di particolare. Il vocabolo sul dizionario della lingua italiana c’è. O meglio, più facile trovare il verbo corrispettivo: “svenato” è il participio passato di “svenare”. Letteralmente, significa “dissanguare”; in senso più figurato, evoca invece scenari di svuotamento economico, perdite di pecunia.
Non mi risulta tuttavia che venga usato tanto spesso con valenze sostantivate. E’ da questo punto in poi che si innesta il macinio semantico messo in piedi coi miei amici.
Dopo essere passato più volte attraverso la “fucina verbale” dei miei amici e mia (sempre espressione leggendaria, anche qui da leggersi: “osteria lingusitica”) “svenato” è da noi ormai utilizzato in riferimento alla produzione creativa di un qualche artista, meglio se cantante o musicista.
Già qui c’è un primo, piccolo valore aggiunto portato dalla “sostantivazione” del verbo. «…Il tizio è uno svenato…la tale è una svenata…» equivale a dire, che ne so, «…Il tizio è un meccanico…la tale è una parrucchiera…». “Svenato” diviene quasi una “caratterizzazione esistenziale”.
Ma questo è solo un primo gradino di arricchimento verbale.
Il secondo livello ce lo abbiamo appiccicato per assonanza contenutistica con l’espressione “vena creativa” oppure “vena poetica”. L’artista svenato è dunque quel creativo che ha smarrito la vena artistica.

L’ulteriore passaggio però che impreziosisce definitivamente il vocabolo di sottili valenze fantasiose dialettali, merita una spiegazione precisa. In tal senso, “svenato” acquista nuove coloriture come opposto del verbo “invenare”, questo sì in puro vernacolo delle mie parti.
L’«invenatura» è operazione prettamente connessa alla pratica dell’imbottigliamento del vino con metodi più che artigianali.
Si prende la damigiana (di lambrusco, barbera, gutturnio o simili elisir vineschi…chianti o barolo, per gli eletti), e la si posiziona ad una quota sufficientemente alta da cagionare una lieve caduta per gravità.
Si procede poi ad immergere una canna travasante in bocca alla damigiana, ben a fondo. Mantenendo l’altra estremità libera della canna a quota più bassa del “pelo del vino” interno al panciuto contenitore, si sugge con forza fino a causare la caduta naturale del rubizzo stillare, che per il principio degli omonimi vasi, si mette in comunicazione con le bottiglie da riempire.
A questo punto, con terminologia strettamente “tecnica”, la canna dicesi “invenata”. Se per incuria o disattenzione, l’invenatore non aspira con la dovuta perizia e dell’aria rimane lungo il tragitto della canna ostacolando la fluidità dell’imbottigliamento, la medesima canna ritorna a cadere sotto la definizione “tecnica” di “svenata”. Similmente, quando il purpureo livello all’interno della damigiana cala fin quasi all’esaurimento, la canna, ormai impossibilitata al pescaggio, di nuovo, si “svena”.
Ora, non so se a questo punto è chiara la bellezza (sempre nell’ambito di un sano “divertirsi con poco”, ovviamente) di questa stratificazione dialettale.
Immaginate il cantante in difficoltà creativa assimilato per metafora ad una canna da imbottigliare tutta piena di maldestre bolle d’aria, impossibilitato a travasare il vino melodico dalla damigiana della sua ispirazione alla distesa melomaniaca di bottiglie rappresentata dal pubblico canzonettaro.
Detto in una sola parola: è “svenato”.
Vi dirò di più: in virtù di una gioiosa confusione di ruoli, in forza di una caleidoscopica inversione della parte per il tutto, del mezzo per il fine, adesso concedetevi pure di immaginare che il musicista in questione venga metaforizzato come l’imbottigliatore medesimo.
Canna alla bocca, ciuccia che ti riciuccio, strabuzza gli occhi che ti dilato le froge, ma niente: dalla damigiana non viene giù una nota di vino decente che sia una.
Sempre detto in una sola parola: il musicista è “svenato”.

Insomma, è proprio percorrendo questi bizzarri sentieri mentali che ci si rende conto ancor meglio di quanto la preziosità semantica del dialetto sia impagabile. L’italiano è una bellissima lingua, ma i nostri dialetti sono cinema, poesia, teatro, pittura e scultura fusi insieme.
Cosa aggiungere ancora, cari amici viandanti per pensieri?
“Invenate” per bene la canna e alla vostra salute!

8 commenti:

farlocca farlocchissima ha detto...

poi c'è sempre l'oracolo che aggiunge sviluppi ulteriori, metafore e immagini: suarief mi dice... ma che vole secondo te?

Gillipixel ha detto...

Suarief è un cerimonioso modo di dire del popolo dei borks...starebbe per una sorta di "sua maestà"...loro lo dicono sempre al proprio govenante supremo, tale dific...sembrano deferenti e devoti, ma in realtà lo pigliano per il culo: quando dific volta l'angolo infatti, sghignazzando sotto i baffi, sussurrano: "mortbure!"
:-)

farlocca farlocchissima ha detto...

ungedist: dizionario dei borks è ovvio :-d

Gillipixel ha detto...

veh :-) ne è nata pure una vaccatina su paroleincerca:

http://paroleincerca.blogspot.com/2009/12/filogovernativita.html

maria rosaria ha detto...

sempre affascinanti i tuoi percorsi che la penna ruba ai pensieri! sai ormai che provengo anch'io dalla periferia di un piccolo paese... e ricordo ancora le vendemmie e la festa di quando "si faceva il vino". "quando fate il vino?" era proprio così che si domandavno l'un l'altro i miei vicini e i miei parenti.ricordo che pestare l'uva con i piedi era per me il raggiungimento di una gioia indicibile. e a proposito di dicibile, non mi torna in mente quale termine si usasse per travasare il vino dalla damigiana alle bottiglie, cosa che ho fatto innumerevoli volte.
il tuo viaggio, nel descrivere l'uso di un termine che riporta anche ad altri ambiti è stato interessante e ricco di panorami da ammirare.
bravo, gil!
ma scrivi anche per mestiere? perché forse sarebbe il caso!
bacio

Gillipixel ha detto...

@->Maria Rosaria: grazie, EmRose, e non posso che rispondere: sempre un onore per me avere lettrici così carine e sensibili come te :-)
L'emozione della pigiatura dell'uva l'ho vissuta anche io diverse volte...meriterebbe uno scrittino apposito, chissà che un giorno non mi esca qualcosa di bello dalla penna su questo tema :-)
Non scrivo professionalmente, in un passato recente ho avuto un'esperienza come corrispondente dal mio paesello sul principale giornale provinciale di qui...pure questo sarebbe un tema da sviscerare, perchè, anche ammesso che ci riuscissi, non so se sarebbe buona cosa scrivere come lavoro...nel senso che verrebbe meno quel fattore ludico che può sopravvivere solo nella scrittura gratuita pura...
Un bell'argomento di discussione :-)
Per adesso ancora grazie e bacino di buon week-end lungo :-)

Il diario di Barbara ha detto...

c'è un invito x te...vieni nel mio blog e lo scoprirai...

Gillipixel ha detto...

@->Barbara: grazie per la gentilezza e per l'ospitalità, Barbara: lo strudel era buonissimo :-)