martedì 28 dicembre 2010

A pesca di venustà linguistica


Amare il linguaggio significa sapersi mettere in ascolto delle sue sfumature più sottili. Non è sempre una questione di facile accessibilità, ma le volte che mi accade di pigliare all’amo un dettaglio linguistico non banale, una sottigliezza espressiva non immediatamente evidente, provo sensazioni di gioia diffusa e profonda.

In quei frangenti si afferra veramente una soddisfazione non paragonabile a nessun’altra inclinazione gratificante dell’animo. Per riprendere una cara metafora già visitata in altre occasioni, quello che mi capita è percepire il linguaggio come vero e proprio prolungamento (o “protesi”, con termine forse meno elegante…) non solo del nostro spirito, ma addirittura del corpo stesso. Nella parola veramente possiamo sentirci completati, come entità fisiche e come esseri dotati di personalità.
E alla stessa maniera che capita quando perveniamo alla consapevolezza di una qualità fino a quel momento ignorata del nostro corpo, oppure ad un pregevole risvolto del nostro animo ancora inesplorato, anche le scoperte linguistiche sono altresì ricche di potente carica rivelatrice.

Nei giorni scorsi, è tornata a visitare i miei pensieri un’espressione brevissima, ma a mio avviso fra le più affascinanti mai plasmate a partire dal materiale linguistico. Ve ne ho già parlato, ma mi piace ogni tanto rispolverarla (e mai verbo sarebbe più indicato al caso...), anche perché stavolta mi si è rivelata, fra le sue pieghe semantiche, una piccola, esaltante epifania.
Si tratta più precisamente del titolo di un libro, in inglese, e proprio lo scarto espressivo afferrabile fra la versione originale e la sua traduzione italiana, ha fornito il motivo scatenante della mia piccola gioia intellettuale.

Il libro in questione è una celeberrima opera del romanziere americano John Fante. Sto ritardando ancora un po’ l’attimo di riportare il titolo per iscritto su questa pagina elettronica, proprio come si fa quando si tiene in sospeso l’approdo ad un ineffabile godimento, perché spesso l’attesa della bellezza promessa sa recare con sé un dolce tormento capace di adagiarsi, nelle nostre aspettative, in gradevole amplesso con la prospettiva dell’appagamento finale. Alla fine tuttavia si giunge sempre all’acme del piacere, e così sarà anche stavolta.
Dunque il titolo del romanzo a cui sto pensando è…«Ask the dust».

Ask the dust…provate a pronunciare queste tre piccole paroline, se vi va. Fatelo sottovoce, sussurrandole, oppure anche scandendole per bene, con un tono ed un volume più corposi.
Non avete quasi l’impressione che il cuore, prendendo a braccetto la mente, si metta a fare l’amore con i suoni carezzevoli sgorganti dalla vostra lingua e dal palato, invitando nel contempo alla festa anche l’udito, dando adito alla delizia globale in cui vi ritrovate avvolti?

Per sfiorare queste piccole estasi linguistiche non è poi necessario che l’oggetto del nostro stupore sia portatore di significati strettamente gioiosi o leggeri. Il caso che vi sto sottoponendo ci conforta esattamente in questo senso.

«Ask the dust»…«Chiedi alla polvere».

Non è propriamente un’espressione rassicurante. Evoca scenari di tribolazione interiore, panorami di smarrimento, di impoverimento spirituale. Evoca la sete, la secchezza della bocca, triviale ostacolo allo stesso atto del pronunziare parole per chiedere.

Come mai mi permetto dunque di affermare che si tratta di un’espressione portatrice di qualità estetico-linguistiche appaganti?
Proprio perché quella di cui sto parlando, quella a cui si mira con questo tipo di atteggiamento verso la “parola”, è una dimensione alta dell’anima. E’ la dimensione che può permettersi di guardare alle cose della vita col distacco dell’estasi. In altre parole, è la dimensione della bellezza linguistica pura, non contaminata dai contrattempi e dalle bassezze del vivere spicciolo. Non che lingua e vita siano due capitoli separati, ma esiste un territorio sublimato del linguaggio, dove ciò che diventa primario è la perfetta corrispondenza fra volontà significante ed effetto espressivo ottenuto. Questa è la sola bellezza che conta in un simile modo di considerare il linguaggio.

Accennavo prima al fatto che la piccola epifania riservatami in questo caso dal beneamato titolo del romanzo di John Fante, è stata scatenata dal confronto fra l’originale e la traduzione italiana.

«Ask the dust»…«Chiedi alla polvere».
A parte l'ovvio fatto che nella traduzione se ne va inevitabilmente perduta la secca e frusciante sonorità dell'originale, è stato un piccolo dettaglio grammaticale a rimarcare lo stupore. Conosco ovviamente questa regola linguistica inglese da non so quanto tempo, ma chissà perché solamente in forza del titolo del romanzo “fantesco”, m'è venuto da apprezzarne in modo particolare la magica bellezza soggiacente.

Sto parlando del fatto che in inglese il verbo “ask” (“chiedere”) non regge la preposizione. In inglese non si dice «chiedere qualcosa “a” qualcuno», ma semmai un cosa tipo «interpellare qualcuno per qualcosa»” («Ask someone for something»).

La differenza è sottile, ma merita tutto il nostro stupore. «Ask someone» (invece di «chiedere “a” qualcuno») mette sullo stesso piano di dignità il richiedente e l'interrogato. Non c'è quella sensazione di distanza e di separazione introdotta, a seconda del caso, dalle preposizioni “a, al, agli, alle,...ecc.”. Forse si tratta solo di una mia vacua suggestione, ma questa cosa, per quel che riguarda il mio modo d'intenderla, innesca anche una valorizzazione ulteriore dell'atto dell'ascoltare.

Nel «domandare qualcuno» («Ask someone»), io ci leggo una maggiore predisposizione a voler stabilire un grado di empatia superiore con ciò che mi sarà risposto, più di quanto non accada invece quando si «domanda “a” qualcuno».

Il nostro uso della preposizione crea una cesura fra i dialoganti, laddove invece la forma inglese li mette subito sulla medesima lunghezza d'onda. In questo senso, «Ask the dust» rende quasi l'idea che il “richiedente”, non solo si produca in un'interrogazione figurata della polvere, ma che di polvere abbai intrisa la bocca stessa. Allo stesso modo, quando una persona pone una domanda in inglese, è mossa da un'intenzionalità di immedesimazione completa con colui al quale il quesito è rivolto. In quella formulazione priva di preposizione si cela una speranza di sentire l'altro dentro di sé (e su questo dettaglio, i più goliardici si astengano da battutacce, please...).

Io che sono un conversatore alquanto scarso, talvolta sogno (non in senso figurato, ma proprio nel sonno...) di avere dialoghi stupendi con persone frequentate anche comunemente, però con le quali non riesco mai a colloquiare in misura soddisfacente nella realtà.

Poche volte nella vita da sveglio ho provato una sintonia di discussione con qualcuno come in occasione di quelle chiacchierate oniricamente simulate. In quelle circostanze verbal-ronfatorie, sento me stesso e l'interlocutore fusi insieme nei significati delle parole che pronunziamo.

Ecco, non saprei spiegarvi come, ma sono quasi certo che il dialogo perfetto, del tipo scaturito in queste parallele esperienze del mondo dei sogni, ha esattamente la stessa natura di un dialogo intessuto nello spirito del domandare alla maniera inglese, quella che si manifesta nella magica e compenetrante formula dell'«asking someone».



6 commenti:

ross ha detto...

BELLISSIMO!!!Io non conosco l'inglese ,ma ho capito. grazie.quando si dice che certe frasi sono intraducibili...E e tutto il resto,mi hai emozinato .volevo aggiungere solo una cosa , magari non centra nulla ma mi viene cosi. prendila cosi.Mentre leggevo mi è venuta in mente la parola "LOGOS" .IL verbo lego indica le due azioni del raccontare e parlare ma anche il mettere insieme le idee, ordinare e anche scegliere(QUANDO SCELGO SONO LIBERO),e forse creare.Dire e scegliere hanno un'unica etimologia.le parole rappresentano il mondo interiore e lo cambiano . cambiano anche quello dell ascoltatore . .grazie ANDARPERPENSIERIEPAROLE

Occhi blu ha detto...

Presa dalla femminile curiosità, ho accantonato "Amor, ch'a nullo amato amar perdona" per tornare a leggerti a ritroso.
Sono arrivata qui.
Il quadro è più chiaro ora: campagnolo acculturato, timido sicuro di te, razionale fantasioso, pigro curioso, ascoltatore comunicatore, attento distratto, semplice complesso.
Non so quale sia il tuo lavoro, ma a mio avviso potresti provare a pubblicare qualcosa o a scrivere su commissione.
Hai sia la lingua che la fantasia dalla tua. Esci allo scoperto!
Potresti diventare il Calvino dei giorni nostri ...

Gillipixel ha detto...

@->Occhi Blu: sono iper-lusingato dalle tue parole, OuBee :-) avevo scritto "di là", di essermi messo al pari nelle risposte tuoi commenti, ma mi ero scordato questo, e forse altri (ora controllo meglio :-)

Oh...addirittura Calvino? :-) ma grazie, non ho parole...mi piacerebbe pubblicare, ma è una strada dura...grazie ad ogni modo per l'incoraggiamento, mi è molto caro...

Bacini pigri e curiosi :-)

Gillipixel ha detto...

@->Ross: vedo ora anche il tuo caro commento, Ross :-) grazie, è vero: scegliere, pensare, dire, sono tutte azioni imparentate, tenute assieme dal collante della libertà :-)

Bacini logici :-)

Occhi blu ha detto...

Prova ad inviare qualcosa qui:

www.edizioniilciliegio.com

Una volta davano una risposta anche in caso di rifiuto.
Ora ho appena letto che le cose sono cambiate (si saranno ingranditi/fatti un nome), ma vale ugualmente la pena tentare, no?

Ciao Gilli Calvino Moby Pixel (che i miei epiteti ti portino Fortuna)!

:)

Gillipixel ha detto...

@->Occhi Blu: grazie dell'indicazione, OuBee cara...farò un tentativo :-)

Bacini editoriali :-)