lunedì 16 novembre 2015

L’auto-capro involontario


Oggi le frasi dello scrittore si prendono una piccola pausa. Torneranno regolarmente domani.

Lo scritto che segue, lo avevo preparato nei giorni precedenti a quel nebbioso venerdì 13 novembre del 2015, coi sui tremendi fatti di Parigi. Ma poi mi sono accorto che le riflessioni in esso contenute, in qualche modo riguardano, a più livelli, anche quei fatti. Lo sottolineo, perché ci tengo: a più livelli.

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Un giorno assistetti a un incidente davvero strano. Ogni tanto ci ripenso e una ventata d’incredulità mi sferza ancora i ricordi.

Camminavo per la città, di mattina presto, nel culmine di quei momenti in cui tutta la gente in giro spreca un sacco di fretta per correre verso la meta quotidiana. Dovevo attraversare un viale di quelli che strizzano ad anello il centro storico, spremendone traffico di auto e moto come grasso urbano colato.

Giunto all’altezza del semaforo, mi misi ad aspettare il via libera insieme a un drappello di altre persone, distribuito di qua e di là della gran via. Sia che lo si viva coi piedi posati sul marciapiede, sia stringendo il volante e “niki-laudeggiando” sulla frizione, il momento di attesa al semaforo è sempre gravido di stati d’animo rarefatti. Si crea un’intesa muta fra sconosciuti. Corre lungo le schiene un’energia meta-socializzante, che va al di là di ogni dialogo e di ogni incomunicabilità. Eccezion fatta per i casi di palese degenerazione, l’umanità al semaforo è un’umanità ideale. C’è il giusto grado di partecipazione e di distacco; si è collettivi e individuali al tempo stesso, senza soluzione di continuità fra i due stati; si parteggia tutti quanti compatti per il medesimo colore (e contro il colore dei diversamente schierati, ovvio).

Insomma, ero lì in procinto di crogiolarmi nel calore umano della mia fredda comunità d’occasione, quando successe il fatto. Bisogna però prima sapere che l’approdo al semaforo opposto si prolungava in un marciapiede perpendicolare al senso dello stradone, molto agevole e invitante anche per le biciclette. Ai fini del mio racconto, è importante anche sottolineare che quella volta arrivai sul ciglio del marciapiede giusto nell’imminenza dello scoccare del giallo, attestandomi sul limitare spazio-temporale di quella terra di nessuno del “passa tu che passo io”. 

Faccio appena in tempo a fermare il piede sull’invalicabilità del cordolo, mentre nella direzione ostile i motori delle auto già rombano in ortogonale fremito per impegnare l’incrocio, quando proprio dalla pista opposta vedo partire una bici a razzo. Sopra la sella ci stava un ragazzetto sui quattordici anni. O quindici, non lo saprò mai. Così come non saprò mai quale folle progetto para-suicida gli abbia fulminato quella sua povera mente sgualcita in quegli istanti focali. 

Nessuna fretta, di nessun ordine e grado, nemmeno il più inderogabile fra gl’irrimandabili impegni, avrebbe potuto giustificare una mossa così azzardata. In pratica si lanciò a tutta birra nel mezzo dell’attraversamento, quando il rosso era già scattato ampiamente; nell’incoscienza più buia, come un lemming impazzito giù dalla sua scogliera preferita. Ma la cosa davvero stupefacente, per me che vidi tutta la scena con nitidezza piena, me la riservò il suo sguardo. Il viso basso sul manubrio, in un goffo tentativo di tagliare l’aria (se ancora ci fosse stato bisogno di aggiungere altro non-senso alla sua sconsideratezza), aveva negli occhi un fatalismo cocciuto, che rasentava l’inutilità pura. Una consapevolezza piena di tutta l’idiozia del momento. Il terrore della lepre braccata dal cacciatore. La rassegnazione dell’agnello che si accomoda sull’altare sacrificale dell’assurdità. 

L’esito di questa sommatoria di storture fu inevitabile, ma per fortuna smorzato nei toni di drammaticità che avrebbe potuto assumere. L’illogico giovin ciclista riuscì ad aggrapparsi con la ruota anteriore al cordolo salvifico, senza riuscire tuttavia ad evitare di venir scodato con forza, sulla ruota dietro, dal muso di una grossa auto. Questa andava discretamente, ma non era ancora lanciata in pieno, essendo partita poco prima col via libera del verde, appena ricevuto a qualche metro lontano dall’impatto. 

Il ragazzo cadde per terra, senza farsi nulla di che, e si rialzò in un attimo. Dalla vettura scese una distinta signora, che si distingueva proprio in signorilità, all’apparenza molto più spaventata dello strambo investito. Si rassicurava sulla sua incolumità, lo interrogava con fare soccorrevole, ma quello era calato in una trance totale, quasi negava persino l’evidenza di esser vivo. E il punto è che questo stato non sembrava derivato dall’incidente: no, quella aveva tutta l’aria di essere la sua sonnambolica condizione mentale ordinaria.

Tanto è vero che, senza dare cenno di rassicurazione alcuna alla signora (sempre più incredula), ma biascicando pochi fonemi sconnessi, inforcò di nuovo la bici e ripartì di gran carriera, lasciando dietro di sé soltanto l’insulsa scia della ruota posteriore, nella sua nuova bizzarra orbita svirgolata dal botto.

Questo fatto mi suscitò all’epoca tutte le impressioni strane che vi ho raccontato. Ma ripensandoci a distanza di tempo, rivaluto il ruolo di “metafora umana” giocato da quel ragazzino così sconsiderato. Quante volte, nelle scelte di tutti i giorni, ci comportiamo nello stesso suo modo, quasi senza rendercene conto. Quante volte ci buttiamo a pesce in una situazione o in una convinzione, con la cecità dell’inconsapevolezza più pura. Chiudiamo gli occhi, abbassiamo la testa sul manubrio e ci tuffiamo, sperando che vada bene. Spesso, anche se la posta in gioco è irrisoria (come nel caso del ragazzino che mise sui piatti della bilancia dell’azzardo, una manciata di tempo guadagnato da una parte, e la propria incolumità o la vita stessa, dall’altra).

Ancor più preciso rilevare come un simile atteggiamento sia tipico della folla, o della massa, o addirittura delle nazioni. I grandi aggregati umani molto spesso si gettano nell’ignoto, attratti da un ipnotico richiamo e rischiano tantissimo per le più insondabili ragioni. Le cause possono essere molteplici. In alcuni casi, le decisioni prese da pochi (per interesse, per incompetenza, per calcolo fatto in malafede, per ingenuità) sono le meno adatte allo scopo e vanno a scapito dei molti. In altre circostanze, l’emotività ha il sopravvento, la pancia parla prima, molto prima, della testa, e si finisce per fare la cosa sbagliata. Tutti fenomeni che, nel loro piccolo, si giocarono anche nella mente e nell’intimo di quell’insensato, auto-lesionista, traversante semaforico.

Insomma, all’epoca non lo sapevo, ma mi ero imbattuto non solo in una adolescenziale ciclo- imprudenza, bensì niente meno che in un ciclista-nazione, un ragazzino-massa, un incauto sbarbatello-folla.

Ogni persona è dunque al tempo stesso folla e individuo. E’ molteplicità e singolo, con tutti i pregi e i difetti connessi alle due dimensioni. E non sempre, purtroppo, le peculiarità di una di queste realtà interiori si manifestano al momento giusto, con le giuste proporzioni e con l’appropriatezza del caso.


2 commenti:

Kika ha detto...

Davvero un'ottima riflessione, scaturita da un ricordo reso vivido dalla tua consueta, magistrale capacità di sctittura. Stavolta non la butto in scherzo, mi inchino al cospetto di Sir Ipixell e basta :)

Gillipixel ha detto...

@->Kika: grazie, troppo gentile, Kika :-) a volte, la "realtà romanzesca", ossia quella che guarda alla realtà da un punto di vista tangenziale, defilato, riesce a raccontarci e svelarci aspetti nascosti che non potremmo apprezzare con uno sguardo più diretto e razionale...

Bacini con contro inchini :-)