Dovrò impegnarmi di più a seminare il supremo "credo del dubbio" se vorrò guadagnarmi l'ambito passaggio alla lista di destra...
domenica 30 novembre 2008
Flessibile e precario?
Dovrò impegnarmi di più a seminare il supremo "credo del dubbio" se vorrò guadagnarmi l'ambito passaggio alla lista di destra...
sabato 29 novembre 2008
La vita vale la pena di essere scritta
"...mi sono chiesto se non è solo per leggerezza che, finora, ho ripercorso gli avvenimenti della mia vita nell'ordine in cui sono accaduti, sì, quasi con la precisione di un cronometro. Non mi ero forse detto che la sola vita che si possa davvero definire mia, era quella che mi turbinava in testa a seconda di come soffiava il vento dei ricordi?...[...]...Come diavolo è andata a finire così, mi chiedo? E forse comincio a capire che la mia seconda vita, ingovernabile come una tempesta con i suoi lampi di ricordi, non può essere scritta. E neppure è più vera dell'altra, quella che inizia con la mia nascita o quel che si vuole, perchè tutte e due, alla fin fine, non esistono che nella mia testa. Per quel che riguarda la verità di entrambe, quindi, sono ugualmente in alto mare. Chissà se Defoe mi avrebbe potuto aiutare in proposito, lui che scriveva per evitare di vivere?..."
"La vera storia del pirata Long John Silver" -
Bjorn Larsson (1995)
Un aspetto della malia dello scrivere (questo, attribuito a Daniel Defoe dal vecchio Long John Silver) che è componente necessaria (anche se non sufficiente) dell'animo di tutti gli amanti di questa forma di comunicazione. Anche per l'autore più impegnato, per quello che affronta i temi di più stretta attualità, di carattere sociale, o politico, sapere che la scrittura può portare momentanemante fuori dal flusso della vita, può far immergere in una distillata e distaccata dimensione consolatoria, è forse il movente che più di ogni altro spinge a mettersi lì con una penna in mano o a pigiare i tasti del pc.
Da questo deriva un fatto paradossale: anche il più disimpegnato degli autori, il più codardo fuggiasco narrativo che sceglie la scrittura proprio per la sua dimensione di distacco dalla vita vissuta, è capace di cogliere ed evidenziare tratti preziosi nella descrizione della vita, e mettersi così facendo "a servizio della vita stessa".
In questo senso, anche per la scrittura, vale un discorso analogo a quello fatto spesso riguardo alla musica, per la quale le distinzioni di genere (rock, classica, pop, ecc.) hanno più una validità cronologica che non di merito: la distinzione fra scrittura impegnata e scrittura disimpegnata ha infatti valore forse puramente classificatorio. La vera distinzione, come per la musica, è fra buona e cattiva scrittura.
La buona scrittura sa cogliere la quintessenza del vivere e ci aiuta, per quanto di sua competenza, a misurare continuamente il grado di validità dell'espressione "la vita vale la pena di essere vissuta".
giovedì 27 novembre 2008
Audio ergo sum
Ascoltare mi è sempre piaciuto molto.
Una radice storica di questa cosa credo di poterla individuare. Dev’esser stato per via del crocchio.
Nell’aia della Casa Vecchia, quando ero bambino, era un appuntamento fisso di quasi ogni serata dal clima gradevole, dalla tarda primavera fino alle soglie dell’autunno. Diverse donne, e anche qualche uomo più incline alla loquela, si sedevano in circolo e stavano lì a chiacchierare senza meta. Sembrava quasi un rito celebrato nel nome dell’enigmatica piacevolezza dell’Inutile, anticamera e preludio dell’altrettanto grande mistero del sonno.
Noi bimbi potevamo intrufolarci solo ai margini. Sia fisici che discorsivi. In un’atmosfera quasi “alberodeglizoccoliana”, non era previsto che i piccoli intervenissero più di tanto. Poi, i pochi miei coetanei presenti si rompevano presto le scatole e toglievano il disturbo, soprattutto il proprio, preferendo magari un giretto in bici. Io invece mi sentivo affascinato da quel microcosmo linguistico ancestrale, anche se all’epoca ovviamente non avevo la più pallida idea che si potesse chiamare così, e rimanevo tutto il tempo, fino all’ora di andare a letto.
La Casa Vecchia era un piccolo quartiere in miniatura. Quattro fette di casa affiancate per ospitare modi di vita piombati sostanzialmente simili dal Medioevo sino ai tempi della mia infanzia. Il “bagno” fuori, il “fuoco a letto” d’inverno, la luce coi fili a vista, come venature cresciute sopra la pelle dei muri, il pollaio “coccodiante”, le gabbie dei conigli, fonte di tenerezza in pelliccia.
Era il tempo che le lucciole cominciavano già ad “impasolinirsi”, ma se ne potevano vedere ancora in discreti sciami, grattarsi le pance radenti sopra i baffetti delle spighe di grano. Di grilli invece ce ne son sempre stati a volontà: le chiacchiere delle donne si impastavano lente con il loro cri-cri di sottofondo senza sosta.
Le donne parlavano rigorosamente in dialetto. L’italiano era una sorta di idioma inferiore per damerini pallidi, incapace di rendere con efficacia la coloritura di certi fatti meritevoli di essere condivisi col racconto. Ancora oggi, le volte che mi scappa un’espressione dettata dalla spontaneità, di primo acchito mi viene da spiattellarla in dialetto.
Anche se in seguito ho imparato ad apprezzare la lingua di Dante e Manzoni nel pieno fulgore della sua bellezza, e ogni giorno questa fascinazione si rinnova e si arricchisce, non di meno il mio dialetto, conosciuto e praticato nella sua forma genuina da non più di qualche centinaia di parlanti, rimarrà per sempre come una placenta gergale entro la quale la mia immaginazione espressiva è stata cullata nei momenti cruciali della sua formazione.
Erano chiacchiere leggere, quelle delle donne nell’aia, di una leggerezza dignitosa e radicata. Ricordi di quando le più anziane erano state mondine. Qualche commento, sgangherato ma denso di saggezza popolare, ai fatti sentiti in tv. Un cenno alla sorella del tale, che ha sposato quel tipo, il figlio di “coso”, che era andato a stare a Milano per aprire una farmacia in società col genero del fratello di “bagaglio”…mentre la scia della ricostruzione parentale si avvoltolava lenta nell’aria insieme alle volute di fumo dello zampirone, messo in mezzo al cerchio delle chiacchiere per attutire la ferocia proverbiale delle “nostre” zanzare…
Alla fine, non lo so se sono una persona capace di ascoltare. So solo che mi è sempre piaciuto molto.
mercoledì 26 novembre 2008
Consumo e felice
Ohi ragazzi, ma voi avete cominciato?
Io non credo di essere mai stato un cittadino modello, ma stavolta ho deciso che era ora di riparare alle mancanze del passato. Così, mi sono armato di tutto il mio senso civico e adesso voglio consumare.
Lo pretendo, è un mio diritto-dovere.
Prima cosa, sto tenendo i termosifoni accesi a palla 24 ore su 24, e nel frattempo porte e finestre rigorosamente spalancate. In questo modo, posso permettermi il lusso di continuare a rimanere vestito invernale di tutto punto, consumando così cappotti e scarpe anche in casa.
Le porzioni di cibo ora le calcolo almeno tre volte tanto rispetto a quello che mi sento di mangiare: stanti questi ponderati calcoli, si determina un meccanismo virtuoso di consumi tale per cui i due terzi avanzati passano nella ciotola del gatto, e da qui, il terzo finale che non riesce a superare l’arduo scoglio del vaglio felino, a gatto strasatollo finisce direttamente nella pattumiera.
Che ci volete fare, noi in famiglia siamo fatti così: quando sono in gioco l’utilità sociale ed il dovere civico, anche il gatto è della partita.
E se, cammin consumatorio facendo, nell’angolino più remoto della coscienza si farà umilmente strada il siffatto velato interrogativo: “…cosa ne sarà poi di quelle 30 camice nuove che intasano l’armadio, delle 42 cravatte fiammanti, dell’ultimo modello di tosa erba SUV cabrio gommato antineve, di quel paio di raddrizza-banane firmati Dolce&Gabbana stipati in garage, del grattugia-struzzi turbo regalato agli amici per l’anniversario di matrimonio?...”, non disperate perché immantinente si leverà consolatorio il pensiero di aver gloriosamente contribuito ad innalzare il Prodotto Interno Lordo di uno straccio infinitesimale di punto, e alla fine potremo far festa tutti insieme organizzando un bel party a base di panini imbottiti di fette di PIL.
Non sia mai che ci rimangano sulla coscienza 400mila nuovi disoccupati per non aver avuto, noi, il buon cuore di sbattere un po’ di soldi giù per il cesso. Noi gente comune senza scrupoli, noi orrendamente ostinati a non lasciarci guidare dal preclaro esempio di solidarietà umana offerto da banchieri, grandi finanzieri e simili.
Tanto, staremo mica a guardare il capello? Qualcuno ci crede ormai così assuefatti a prenderlo nel di dietro in andata e ritorno, da considerarci anche completamente illusi che i soldi, per la proprietà transitiva, vengano fuori proprio da quel di dietro medesimo.
Nota:
So che il titolo scelto (solo perché mi piaceva l’assonanza con la nota canzone di Carmen Consoli) risulta sgrammaticato, e a parte magari vederlo un po’ come una sorta di anacoluto tirato per il ciuffo, non ha in fondo un granché senso.
Ma cos’è? Forse che l’immunità per le stronzate è riservata ai soli politici? Il lodo Alfano ha allungato fino a questo punto i suoi tentacoli?
domenica 23 novembre 2008
Ci crediate o no...
"...Ma quando verrà ciò che è perfetto,
quello che è imperfetto scomparirà.
Quando ero bambino, parlavo da bambino,
pensavo da bambino, ragionavo da bambino.
Ma, divenuto uomo, ciò che era da bambino
l'ho abbandonato.
Ora vediamo come in uno specchio, in maniera confusa;
ma allora vedremo faccia a faccia.
Ora conosco in modo imperfetto,
ma allora conoscerò perfettamente,
come anch'io sono conosciuto..."
San Paolo - Lettera ai Corinzi
Per tanti possono essere anche un magnifico brano di alta letteratura.
Al di là della questione di fede, io le trovo molto evocative.
sabato 22 novembre 2008
Once upon a time...
A volte mi manca il basket.
Anche se fra le tante cause degli acciacchi alla schiena che mi hanno portato a non poterci più giocare va annoverato proprio il basket, mi manca lo stesso.
E dire che, in fondo, vincere non mi è mai interessato più di tanto. Io giocavo per l'estetica. Per il gusto di addentrarmi nella bellezza dei movimenti.
Anzi, è più corretto dire che in realtà ci tenevo a vincere, ma non perchè sentissi in modo particolare lo spirito competitivo. Era più per non dare la soddisfazione della vittoria a chi non si sapeva muovere con tutta l'eleganza e la nobiltà del gesto che con il tempo compresi essere contenute in misura così abbondante nelle movenze di quel gioco.
All'inizio non era facile, perchè spaventava un po' il fatto di dover fare tante cose insieme: palleggiare, camminare o correre, tenere d'occhio il movimento di avversari e compagni di squadra, passare la palla, saltare, tirare.
Ricordo ancora, quando iniziai a conoscere questo gioco, la gioia che mi accompagnava mentre mi rendevo conto che stavo penetrando piano piano nel segreto di quella sincronia di gesti. Era come padroneggiare gradualmente i passi di una danza. E capii di essere a buon punto le prime volte che le gambe si sentirono libere di andare per i fatti loro, come se corressi in condizioni normali, senza quasi dar troppa importanza al fatto che invece le mani stavano pigiando la palla ritmicamente a terra.
Il giorno che mi sorpresi capace di arrestare palleggio e corsa, tirando poi a canestro in salto, tutto con un movimento di filato, ero da solo sul rugoso rettangolo di catrame dietro al campo da calcio.
Credo sia stato quello il momento preciso in cui la mia curiosità per il basket si trasformò in qualcosa di passionale.
Correvo in palleggio dal limite di un'area all'altra, vestito coi jeans, scarponcini invernali e maglione. E mi sentivo libero. Ero entrato nel mistero di una gestualità che fino ad allora avevo potuto solo invidiare ai grandi campioni in tv.
Faceva piuttosto freddo, dev'essere stata una giornata di febbraio, intorno al Carnevale. Forse a casa mi aspettava qualcosa di buono preparato dalla mamma, ed era bello pensarci rubando ancora qualche attimo all'imbrunire incalzante, e ripetere il tiro in salto a perdifiato, scorrazzando felice da un canestro all'altro.
Ancora uno, ripetevo fra me e me. Ma quel tiro di commiato non mi bastava mai, un po' come la volta che scoprii la bellezza di "Some girls are bigger than others" degli Smiths e non mi scomodavo nemmeno ad accendere lo stereo se non per ascoltarla minimo 40 volte di fila.
Ieri sotto sera, è stato uno squarcio di cielo che svaporava vitreo dal cupo cinerino all'indaco luminoso, e più giù ancora verso un arancio palla da basket, a rammentarmi tutto ciò.
Non so dentro quante sere come quella hanno tuffato la loro coda le interminabili partite che ho giocato coi miei amici su quel campetto.
E non so le volte che sono andato anche da solo a confidare le mie pene al canestro, ritrovando nell'atto di scagliare la palla verso il cesto con l'avambraccio che la frusta dolcemente, qualche consolazione ai miei mille pensieri di ragazzino.
"...se va dentro, lei mi dirà di sì..."..."...se va dentro, mi va bene il compito di mate..."...
E infiniti altri ricordi. Belli perchè legati a momenti inutili.
La "mistica" della stanchezza, coi polmoni pieni del fresco del cielo e la gambe sudate di salti e lunghe falcate a canestro. Un senso di amicizia forse mai più provato così intenso, come quello per il compagno di squadra al quale avevo servito un pallone strepitoso, spizzato a terra velocissimo fra le gambe degli avversari.
E le volte che non riuscivo a sbagliare un tiro nemmeno a volerlo, e da 10 metri avrei infilato anche una biglia dentro ad una vera da sposi. E i giorni che invece avrei mancato anche l'oceano con un pesce.
Già, mi manca il basket, a volte.
giovedì 20 novembre 2008
QWERTY! QWERTY! QWERTY!...UIOP! UIOP! UIOP!...Fuit, bum!!!
Andrà a finire che mi farò la fama di assoluto “scrittore sul nulla” (il cugino più brutto del “Pianista sull’Oceano”).
lunedì 17 novembre 2008
Questo è un lavoro per...!
Oggi, manieristicamente, ripensavo un po’ ai vari argomenti strambi affrontati negli articoletti di questo mio ancor più bizzarro angolo di scribacchiature (ghiandole salivari, texture, blob fatti in casa, solo per citare le ultime mie futilità) e fra me e me mi dicevo: “…Sono proprio il Superman dei blogger…”.
Ma nonostante questo po’ po’ di potenziale, SuperLui si ostina ad assicurare alla giustizia qualche rapinatore di banca di tanto in tanto, a frenare la corsa impazzita di qualche treno, o tutt’al più a bloccare le criminose intenzioni di scienziati perversi regolarmente intenzionati a distruggere la Terra, ma una volta passato il pericolo, per quanto gliene può fregare a SupeLui, lascia pure che crolli la finanza mondiale e l’ambiente si riduca ad uno schifo.
Con tutti i problemi che ci sono al mondo, le questioni complesse che lo attanagliano, io cincischio spesso sul filo della surrealtà.
Non è tanto la dimensione medio-borghese che mi interessa, non ci penso nemmeno. Il mio pensiero va più verso la convinzione che osservando la realtà da punti di vista inediti, anche se si tratta di piccoli dettagli, si può andare in qualche modo più vicini ad una sua comprensione. Ora non vorrei menar la faccenda troppo per l’aia, ma queste mie mini-incursioni per assurdo nel mondo del possibile, le intendo quasi una palestra di tolleranza in cui nel frattempo si può tenere in allenamento anche lo spirito critico.
Finalmente ho colto fino in fondo la saggezza di una battuta sentita qualche tempo fa: “Se Superman è così intelligente, perché porta le mutande sopra i pantaloni?”
domenica 16 novembre 2008
Shyness is nice
"...Shyness is nice, and
Shyness can stop you
From doing all the things in life
You'd like to
So, if there's something you'd like to try
If there's something you'd like to try
Ask me - I won't say "No" - How Could I?..."
"Ask", The Smiths (1986)
Fidatevi di me.
Di timidi me ne intendo.
Parlo dunque con cognizione di causa.
Dietro ogni timido, si nasconde un grande egocentrico.
Il timido è tale perchè si sente sempre al centro di tutto e sotto l'occhio di tutti. In ogni istante è abbagliato dal grande faro di un iper-io esterno che lo giudica di continuo. Si sente sotto il torchio costante di un paradossale autoesame che sgorga contemporaneamente esterno a sè e dall'interno di sè.
Ma non fidatevi troppo.
Il timido è anche colui che in fondo in fondo, nelle segrete del suo cuore, di tanto in tanto si compiace nel sentir risuonare beffarda la voce del marchese del Grillo, che motteggia impertinente:
"Io so' io...e voi nun siete 'n cazzo!"
Stand up for your papilla
Se fossi qualcuno che conta qualcosa, indirei una petizione.
Aprirei una sottoscrizione di firme a favore delle papille gustative degli italiani.
Una campagna in difesa delle nostre ghiandole salivari.
E' la famosa acquolina in bocca.
Ma non si può stare tutto il giorno con la ghiandola sotto pressione. Eh no!
Prendi oggi ad esempio.
Me ne stavo bel bello (o meglio, brut brutto) davanti alla tele a fine pranzo, dopo essermi scofanato mezze maniche ripiene in brodo di gallina, cotechino e purè, torta, vinelli vari e bicchierino di Porto finale, mentre davanti agli occhi mi scorrevano immagini alternate di Linea Verde e Mela Verde.
C'era niente meno che il ministro dell'agricoltura Zaia in collegamento da Treviso, che insieme ad abili cuochi locali illustrava la preparazione di una delizia del posto, una sorta di passato di fagioli con grasso pesto da gustarsi insieme a verdurine fresche.
Ed io lì, blandito dalla suggestione gastronomica, nonostante la grande abbuffata da cui ero reduce, giù a salivare peggio del buon cane di Pavlov. Neanche fossero stati 5 giorni che non mangiavo.
Adesso dico: non si può andare avanti così.
Ti svegli al mattino prestissimo, accendi la tv per sapere come ha chiuso l'indice Nikkei e subito ti imbatti in ricette regionali e delizie di ogni tipo. Ti avvii verso il mezzogiorno, e giù di nuovo altre imboscate culinarie a tradimento, che colgono le tue ghiandole salivari in mutande.
E Linea Verde, e Mela Verde, e Eat Parade, e La prova del cuoco, e Sereno Variabile, e poi ancora una miriade di trasmissioni delle quali non ricordo il titolo, ma che tutte inevitabilmente ti colgono alla vigliacca salivante e in subbuglio gastro-illusorio. E così arrivi a fine giornata col canino grondante e un esagerato stillicidio peptinico in bocca.
Ma cos'è questa storia? L'Italia ormai non è una più repubblica fondata sul lavoro, bensì sulla ghiandola salivaria eccitata.
Già, proprio così. Se fossi qualcuno indirei una petizione. Ma non sono nessuno, e mi rassegno. Continuo a salivare.
sabato 15 novembre 2008
Luce e volumi: oggi sposi
Gli edifici, come tutte le cose semplici, sono una faccenda piuttosto complicata.
La cosa complessa è che, pur essendo l'edificio un mazzo di sole tre carte, i semi di queste carte (le loro variabili) sono infiniti, e si può giocare una quantità sterminata di partite senza vedere mai la stessa mano ripetuta uguale ad un'altra.
La texture è la trama superficiale, il tessuto dell'edificio.
Al di là delle difficoltà lessicali, l'idea di texture è forse difficilmente coglibile anche per la sua sostanziale sfuggevolezza. Essa è infatti quel leggero velo sul quale la luce e i volumi si sposano. E' quel confine sottile sul quale l'impalpabilità luminosa si addensa sfociando nella concretezza del tangibile. Quella fine pellicola che confonde su di sè l'idea di visibile con quella di tattile.
Lo aveva capito benissimo Alberto Burri, che su questo concetto ha sviluppato la sua intera poetica.
E lo si capisce benissimo se si fa mente locale sulla ripugnanza e sulla tristezza "testurale" di certi materiali (ad esempio, mi vengono in mente al momento la formica e il linoleum, oppure l'anonima "lisciezza" del cemento armato di certi capannoni industriali, ma non insisto oltre per non causarvi conati e nausee estetiche varie), confrontata con la nobiltà, la "sapienza" , la capacità di "accumulare memoria" che posseggono certe altre superfici (come quella del muro in "cotto" o del legno).
Texture dunque. O tessuto, o trama. E' importante. Comunque la vogliate chiamare.
mercoledì 12 novembre 2008
Il Blob fai da te
Lo scrittore diligente è sempre a caccia di piccole intuizioni, sensazioni mentali subodorate, micro-pensieri illuminanti quanto sotterranei, dettagli del vivere in grado di accendere quella fiammella di stupore interno indefinibile altrimenti.
domenica 9 novembre 2008
Il pane e le rose
Devo essere un gran pauperista. Un populista, un luddista. Devo essere un iconoclasta. Devo essere anche parecchio retrogrado, passatista. Devo essere uno che non ama la bellezza, un ingrato che non comprende l'importanza dell'immagine, della dimensione estetica, nella nostra società. Devo essere un gran nostalgico di una tanto mitizzata, quanto mai esistita età dell'oro. Devo essere afflitto da una terribile miopia sociale, che mi impedisce di guardare avanti, mi impedisce di capire i meccanismi più raffinati attraverso i quali il motore dell'economia è capace di sostentere il movimento del progresso, continuando a far girare le leve vitali e fondamentali che sostengono il nostro bene collettivo.
Altrimenti, non saprei spiegarmi un fatto.
Perchè se non è vero tutto quanto detto sopra, ieri sera, dopo aver sentito al Tg4 che nelle gioiellerie dalle parti del Ponte di Rialto a Venezia, il prezzo medio di vendita delle collane, un anno fa attestato intorno ai 300 euro, ora per la crisi è sceso a circa 30, come si spiega che non mi sono commosso?
venerdì 7 novembre 2008
Normale
"Come stai?".
Ecco una domanda che mi mette sempre in difficoltà, mi crea disagio.
Rispondere "bene" mi sembra sempre eccessivo e soprattutto poco sincero. Non va mai bene del tutto. Almeno, non so a voi, ma durante le mie giornate non capita quasi mai: ci sono quelle più o meno serene, ma proprio tutto liscio dall'alba al tramonto va molto di rado. E se devo dare il mio responso radioso tanto per darlo, boh, non so, mi sa tanto di fiato sprecato. In particolare se il "Come stai?" viene da una persona cara, ho quasi l'impressione di prenderla in giro a rispondere con un secco, netto ed irremovibile "bene!".
Tanto per dire, puoi accendere le tele ed imbatterti in Emilio Fede o in Studio Aperto; oppure sai che è inevitabile lungo il giorno dover fare cose che ti stanno sulle scatole; e inoltre, almeno un paio di momenti della giornata li dovrai passare con persone delle quali non ti può fregare di meno, e fra di loro c'è magari lo stesso semi-conosciuto che ti sta chiedendo "come stai?".
E questo, solo per citare le motivazioni più accidentali e superficiali. Che se vogliamo andare sul filosofico e tagliare corto il concetto, possiamo dirla con Emil Cioran: "L'uomo è inaccettabile".
La condizione umana, da qualsiasi prospettiva la si rigiri, è tragi-comic-grottesca-zzeggiante, e come si può affermare allora impunenemente di stare bene e non dubitare nel contempo di essersi trincerati dietro un'accampata verità ideologica di comodo? Insomma, "Sto bene" è una tesi intrinsecamente fasulla, se passata al vaglio del rigore filosofico più stretto.
Tuttavia, nei periodi ordinari della vita, anche dire che va male non è mai completamento corretto. Fatte salve le sfighe più totalizzanti (che pure capitano, ma speriamo stiano sempre il più lontano possibile), puoi sempre tener conto che c'è chi sta molto peggio di te, e saresti un ingrato ad amplificare i tuoi guai e grattacapi quotidiani, così piccoli se rapportati alle tragedie del mondo. Non è onesto. Anche perchè (sempre fatti salvi i casi più gravi, quelli in cui si ha bisogno di conforto) mettersi ad impestare il prossimo coi propri problemi non è mai tanto giusto, che ciascuno ha già i suoi di guai.
La domanda "come stai?" è stata insomma sempre un po' spinosa per me. Fino a quando non conobbi un ragazzo, che precariava in un ufficio in cui mi ritrovai anche io a trascorrere qualche periodo di lavoro "interan...inale".
Era un giovincello simpatico e svagato, un po' con la fissa dell'heavy metal. Non so se faceva parte del gergo del suo mondo musicale prediletto, ma per lui ogni cosa era degna di essere catalogata come normale.
Mi parlava di una ragazza. "Che tipo è?", chiedevo: "Normale".
Diceva di aver passato il week-end ad una festa. "Com'è andata?", e lui di nuovo: "Normale".
E fu da allora che capii come avrei risolto il mio problema ed il mio imbarazzo di fronte alla domanda fatidica.
Infatti adesso, ogni volta che mi chiedono: "Come stai?"..."Normale", faccio io.
giovedì 6 novembre 2008
Sognix
Ci devono essere dei pacchetti di emozione che andiamo a pescare nel data-base dell’anima a seconda delle occasioni. Una sorta di cartellette del nostro “windows dei sentimenti”, che fanno capolino nell’animo già preconfezionate, quando incorriamo in determinate situazioni o particolari condizioni emotive al contorno, e in automatico emergono a pelle quasi incontrollabili.
Non lo dico in base agli esiti dell’ultimo studio commissionato al professor Futilius della “John Nosense University”, non preoccupatevi: per sostenere questa preclara tesi non è stata sprecata nemmeno una ghinea, non sono stati allestiti gruppi sperimentali, non sono stati maltrattati animali, non sono stati fatti spot pubblicitari e non è stata costruita nemmeno una nuova automobile ad incrementare l’impestamento del mondo causato da quelle odiose scatole di latta (un giorno scriverò un articolo contro le automobili, e sarà un capolavoro di incoerenza e rabbia…). Anzi, i fondi eventualmente raccolti con la divulgazione di tale verità inconfutabilmente soggetta a dubbio, saranno devoluti in favore della liberazione di Vladimir Luxuria dall’Isola dei famosi.
Per questo “studio”, dicevo, non sono stati investiti fondi, ma solamente un pisolo di dimensioni ragguardevoli, speso da me medesimo disteso con sommo sprezzo del pericolo davanti alla tele. La tv per questo scopo è uno strumento potentissimo: aiuta a far sonni che partono a motore caldo, belli carichi di un loro flusso informativo già messo in moto (la metafora motoristica mi ripugna, ma in questo caso veniva bene…). E nel rimescolio di video, sogni, sonoro e sprazzi di dormiveglia, possono spuntare piccole folgorazioni concettuali niente male.
Un’osservazione del genere l’ho sentita fare una volta anche dal geniale creatore dei Momix, Moses Pendleton. Alcune delle intuizioni riversate poi nelle sue stupende coreografie sono scaturite proprio fra le pieghe di quei momenti di sonnolenza molesta ai quali ci si abbandona talvolta dopo una grande fatica, e si dormicchia un po’ così, senza meta, con alternanza di piccoli risvegli da ricacciare subito indietro, sotto il velo di un nuovo sogno.
In buona sostanza, Johnny…cosa ho scoperto facendo lo slalom fra i miei sogni catodici? In poche parole, quella che mi sono sognato è la cartella delle emozioni salvata nel mio “disco C" emotivo con il nome di “Film di crisi anni ‘70”. E proprio da lì, per la pregnanza della sensazione, mi è scattata la suggestione dell’esistenza di queste directory emozionali.
Le fattezze esteriori del sogno riportate a parole non diranno molto. Ma lo sapete come succede nei sogni, immagine e sensazione vanno molto spesso ciascuna per loro conto. C’era questo tipo, che al tempo stesso ero io ed era il protagonista di un film, sullo sfondo di una vasta distesa di “paesaggio americano” in salita, col sole quasi di fronte. Lungo una carraia che segnava tutta la china a metà, spelacchiandone il prato, c’è un furgoncino, tipo pick-up. Il personaggio-io imbraccia un potente fucile, e ad un certo punto fa fuoco sul retro del veicolo (devo smetterla di odiare le automobili…), e dalle immagini del sogno non si capisce, ma la storia emotiva sottintesa racconta che l’uomo alla guida ha fatto una brutta fine, e che lo sparatore è preda ora di mille tormenti di coscienza per quel gesto che tuttavia lui, per qualche motivo esistenziale profondissimo, “doveva” fare.
Queste poche scene però sono state solo la superficie del trambusto di emozioni provate: sotto alle immagini sognate c’erano tutto il rimorso, i sensi di colpa, gli smarrimenti, la fierezza di esser perdenti, la fatale impotenza contro la crudeltà del destino, la catarsi angosciosa, l’apocalittica sensazione diffusa del “Laureato” e di “Cane di paglia”, di “Kramer contro Kramer” e “L’inferno di cristallo”, dei “Tre giorni del condor” e di “Brubaker”, di “Incompreso” e “L’albero di Natale”, di “Tom Horn” e “Soldato blu”, di “Corvo rosso non avrai il mio scalpo” e “Piccolo grande uomo”. È stato così che tutto il pacchetto emotivo mi si è profilato nella sua nitidezza, coi suoi contorni ben definiti giallo paglierino: era esattamente una cartella di sensazioni ben precise.
(P.s.: alcuni dei film citati non rientreranno propriamente nella decade 1970, ma la suddivisione intesa faceva più riferimento a dei confini estetico-esistenziale che non a delimitazioni di carattere strettamente cronologico)
mercoledì 5 novembre 2008
AndarperObama
Adesso viene il bello. Dantescamente, per lui si va nel tempo delle responsabilità e delle sfide grandiose. C’è tanto da fare e ancor più da sperare.
Ma un frutto è già stato colto. La fiducia oggi sorride di ebano radioso.
Basta col bagliore sinistro e sbandato nello sguardo di viso pallido “occhio di vitello”.
Basta con l’ottusità del male.
Basta crudele follia, che scoppietta di tragica insignificanza come una grottesca manciata di pop-corn unti di sangue.
Oggi ad andar per pensieri si tira su un’idea sola: Obama.
Un uomo-idea-di-mondo in prospettiva di luce.
Un uomo-idea che a pensarla si porta dietro altri idea-uomini. E Jack Kennedy e il mite Bob, e Martin Luther e il suo sogno. Perchè possa diventare più vero oggi, senza mai perdere lo smalto del sogno domani.
martedì 4 novembre 2008
Can't explain
Con forma indecifrabile fluttua la presenza degli altri nella percezione delle epoche della nostra vita. Persone intorno, come bagliori di calore impalpabile. Ci si adagia nel tepore della confidenza, in quell’odore domestico emanato dal riflesso così familiare di questi focolari-anima.
Da bambini l’adesione è totale, senza cautele, spontanea. Non si immagina il distacco, semplicemente non se ne ha concetto. La memoria amniotica è ancora troppo viva, la pienezza del sogno placentare ci vela ancor troppo pesantemente lo sguardo.
È all’illusione di quel sogno che confidiamo di aggrapparci ancora, ogni volta che conosciamo di nuovo. Nuovi amici, nuovi amori (corrisposti o no), nuovi colleghi, nuovi vicini di casa, nuovi negozianti, nuovi gatti, nuovi baristi. Nuovi vivi. Si riplasma ogni volta la nostra mappa del calore umano.
Il segreto è un inganno fatto a noi stessi. Il segreto è imparare a saper dosare la tensione del nodo, che nessun legame può durare sempre. Il segreto è saper suggere, da quel fiore-calore, la misura esatta della sua fugace fragilità.
Un’oncia di polline in meno e non si potrà veder gocciolare miele di sorrisi, baci, attimi di convivio dello spirito, di fusa, o il ricordo vitale di tutto questo.
Un’oncia di polline di troppo e sarà sofferenza un giorno ad otturare le cellette in cerulei esagoni ormai disseccati d’affetti e di vicinanze.
Tutto questo solo per lo spostamento di alcuni colleghi nel vasto open space dell’ufficio. A volte basta che la temperatura del calore umano in cui siamo immersi si scosti di una frazione insignificante di grado dallo stato di equilibrio raggiunto, e ci si rende conto di quanto delicata sia quella proporzione.
Ognuno sta solo sul cuor della terra
trafitto da un raggio di sole:
ed è subito sera.
Salvatore Quasimodo
“Acque e terre” (1920-29)
Got a feeling inside (Can't explain)
It's a certain kind (Can't explain)
I feel hot and cold (Can't explain)
Yeah, down in my soul, yeah (Can't explain)
Can't explain I think it's love
Try to say it to you
When I feel blue
The Who (1965)