Gli edifici, come tutte le cose semplici, sono una faccenda piuttosto complicata.
La parte semplice sta nel fatto che un edificio in fondo è fatto di tre ingredienti: volumi (stretti parenti degli spazi, da essi determinati), texture e luce.
La cosa complessa è che, pur essendo l'edificio un mazzo di sole tre carte, i semi di queste carte (le loro variabili) sono infiniti, e si può giocare una quantità sterminata di partite senza vedere mai la stessa mano ripetuta uguale ad un'altra.
La cosa complessa è che, pur essendo l'edificio un mazzo di sole tre carte, i semi di queste carte (le loro variabili) sono infiniti, e si può giocare una quantità sterminata di partite senza vedere mai la stessa mano ripetuta uguale ad un'altra.
Una volta lessi una bellissima frase del grande designer Bruno Munari, riguardo al concetto di fantasia. Non ricordo testualmente le parole, ma in sostanza diceva che la fantasia si basa in fin dei conti su un meccanismo elementare: consiste nel saper fare accostamenti tra elementi differenti, creando composizioni esteticamente significative. Una volta colto il senso del gioco compositivo, il segreto sta nel conoscere sempre più elementi da far entrare nella partita.
Delle tre "carte" (come metaforizzato sopra) a disposizione di un edificio, la texture è la più sottovalutata. Sarà forse perchè in italiano non c'è un termine ben chiaro a tradurre questo concetto, chissà. Nei paesi anglosassoni infatti, non so, sembra che questo importante valore estetico venga tenuto in maggiore considerazione.
La texture è la trama superficiale, il tessuto dell'edificio.
Al di là delle difficoltà lessicali, l'idea di texture è forse difficilmente coglibile anche per la sua sostanziale sfuggevolezza. Essa è infatti quel leggero velo sul quale la luce e i volumi si sposano. E' quel confine sottile sul quale l'impalpabilità luminosa si addensa sfociando nella concretezza del tangibile. Quella fine pellicola che confonde su di sè l'idea di visibile con quella di tattile.
Lo aveva capito benissimo Alberto Burri, che su questo concetto ha sviluppato la sua intera poetica.
E lo si capisce benissimo se si fa mente locale sulla ripugnanza e sulla tristezza "testurale" di certi materiali (ad esempio, mi vengono in mente al momento la formica e il linoleum, oppure l'anonima "lisciezza" del cemento armato di certi capannoni industriali, ma non insisto oltre per non causarvi conati e nausee estetiche varie), confrontata con la nobiltà, la "sapienza" , la capacità di "accumulare memoria" che posseggono certe altre superfici (come quella del muro in "cotto" o del legno).
Texture dunque. O tessuto, o trama. E' importante. Comunque la vogliate chiamare.
La texture è la trama superficiale, il tessuto dell'edificio.
Al di là delle difficoltà lessicali, l'idea di texture è forse difficilmente coglibile anche per la sua sostanziale sfuggevolezza. Essa è infatti quel leggero velo sul quale la luce e i volumi si sposano. E' quel confine sottile sul quale l'impalpabilità luminosa si addensa sfociando nella concretezza del tangibile. Quella fine pellicola che confonde su di sè l'idea di visibile con quella di tattile.
Lo aveva capito benissimo Alberto Burri, che su questo concetto ha sviluppato la sua intera poetica.
E lo si capisce benissimo se si fa mente locale sulla ripugnanza e sulla tristezza "testurale" di certi materiali (ad esempio, mi vengono in mente al momento la formica e il linoleum, oppure l'anonima "lisciezza" del cemento armato di certi capannoni industriali, ma non insisto oltre per non causarvi conati e nausee estetiche varie), confrontata con la nobiltà, la "sapienza" , la capacità di "accumulare memoria" che posseggono certe altre superfici (come quella del muro in "cotto" o del legno).
Texture dunque. O tessuto, o trama. E' importante. Comunque la vogliate chiamare.
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