Lo scrittore diligente è sempre a caccia di piccole intuizioni, sensazioni mentali subodorate, micro-pensieri illuminanti quanto sotterranei, dettagli del vivere in grado di accendere quella fiammella di stupore interno indefinibile altrimenti.
In certi casi però si tratta di lumicini talmente fiochi, talmente legati ad una circostanza minima ed individuale, che stentano a sopravvivere allo scambio comunicativo, rischiando, una volta messi per iscritto, di affogare inascoltati nell’oceano sterminato del personalismo.
L’idea originale merita di essere messa nero su bianco quando la “meraviglia rivelata” che è in grado di suscitare sia condivisibile e potenzialmente familiare a molti.
Detto questo, e non essendo io uno scrittore diligente, vorrei illustrare una piccola intuizione, una sensazione singolarissima da me provata, pur nella certezza che non risulterà familiare esattamente a nessuno.
Ieri sera, pigreggiavo come mio solito davanti alla tele e mi sono imbattuto in un servizio delle “Iene”. La caratteristica di quegli irriverenti stoccafissi inveterati in nero è questa: sotto il velo della boiata eclatante, ti raccontano cose notevoli.
Per l’occasione, la iena Gip voleva far notare come il linguaggio televisivo tenda a deformare gli argomenti, a seconda del registro espressivo utilizzato per presentarli. Il buon Gippone, sempre piuttosto grottesco ed iperbolico, com’è nel suo stile, aveva creato ad arte una “notizia” fasulla. Fingeva di essere un papà intento a giocare in casa col suo bimbo. Nel tentativo di cogliere al volo un pallone pericolosamente rimbalzante in direzione della porta finestra aperta sul balcone al sesto piano, simulava una catastrofica caduta di sotto, con logico e conseguente spiattellamento fatale di sé medesimo sul prato.
A questo punto, dopo aver mostrato il filmato dell’accaduto in una versione piuttosto “neutrale”, l’episodio veniva tradotto in tre diversi “linguaggi” (o meglio, “dialetti”) televisivi divenuti ormai (purtroppo?) alquanto familiari. Il fatto veniva prima “StudioApertizzato”, poi “RealTvizzato” ed infine “Paperissimizzato”, in quest’ultima variante con tanto di cagnetto che sul finale si avvicinava annusante al corpo spiaccicato, bofonchiandogli che dovevano stare “…viscini viscini…”.
Era piuttosto impressionante vedere come gli stilemi tipici del servizio di “Studio Aperto”, quelli di uno “scoop” di RealTv, e ancora i contorni scherzevoli di “Paperissima”, fagocitavano con il loro “assolutismo” espressivo il dato di fatto di partenza.
Una piccola dimostrazione di come questi tre contenitori televisivi presi a caso siano anche una sorta di schiacciasassi espressive, capaci di piegare ogni argomento e tradurlo nel loro “clima” deformante: quello del pietismo morboso di Studio Aperto; quello del cinico sensazionalismo di RealTv; e quello da forzati dello scherzo, di Paperissima.
La morale che ne ho tratto è che la ri-contestualizzazione televisiva di una “notizia” (o in genere del suo racconto per immagini) può avere su di essa conseguenze deformanti eccezionali, a conferma del fatto che la tele è effettivamente uno strumento molto potente.
Ma non era finita qui, perché cambiando canale, sono incappato in una curiosa coincidenza sul tema. In questo caso si trattava di un film, “Le ali della libertà”, con Tim Robbins e Morgan Freeman, che nella storia interpretano due carcerati.
Avevo già visto il film tempo fa, ma non ricordavo i particolari della storia, e così stavolta ho colto solo una scena già iniziata: i poliziotti entrano nella cella di un detenuto e lo pestano in modo terribile. Le scene dei film sono spesso paragonabili a “dispositivi emozionali”, architetture emotive appositamente confezionate per ottenere un determinato effetto desiderato. Così questa volta mi è scattata l’ovvia indignazione mista a rabbia verso la crudeltà dei secondini.
Ma poi, nel prosieguo della trama, ho riscoperto (ricordandomi anche dalla precedente visione), che il galeotto era stato massacrato per aver violentato e seviziato un’ennesima volta il mite carcerato Tim Robbins, nel frattempo entrato nelle grazie delle guardie per la sua abilità come contabile e persona di cultura.
Ho in questo modo capito che la scena, estratta dal continuum della trama, mi aveva innescato una reazione emozionale del tutto distorta rispetto a quella “ufficiale”, ossia quel “sano senso di vendetta” che infatti poi mi sono ricordato di aver provato nella visione completa di qualche tempo fa.
Ed è stato così che, fra una saggia mattata della iena Gip e uno stralcio isolato di film rivisto, ho compreso ancora meglio la genialità dei creatori di Blob.
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