Quand’ero piccolo, tutti mi scherzavano…ah, no…quella era un’altra storia…
Ricomincio.
Ricordo che sin da quando ero piccolo ho sempre sentito parecchio il fascino della parola scritta. In particolare, capitava un evento periodico che attraverso i miei occhi di piccolo sognatore verbale si tramutava nella “gran sagra luminosa dell’alfabeto”: il giro in città.
Potrà sembrare strano, ma fino al giorno del mio ingresso al liceo, sarò stato in città forse non più di una quindicina di volte. Tanto per dare il senso della mia estrema “dis-urbanità” fino a quel momento: addirittura, le prime sere di quel mio primo anno scolastico lontano dal paese, andavo a letto con il pensiero di dover attraversare, la mattina seguente, l’ampio vialone trafficatissimo ai cui margini la corriera depositava la marmaglia studentesca. Una cosa per la quale mi sono sentito sempre abbastanza ridicolo, ma che ora, ripensandoci a distanza di anni, devo dire mi procura un piccolo moto di bizzarro orgoglio.
Stavo dicendo dunque dei rari giretti della mia infanzia alla volta della città. Di solito succedeva per qualche acquisto, scarpe, vestiti et similia, roba che mi ha sempre esaltato poco, a parte le volte che magari era prevista anche la compera di qualche giochino nuovo, soprattutto se si trattava di qualche scatola degli adoratissimi LEGO (…devo segnarmi di scrivere qualcosa sui LEGO…come ho fatto a non pensarci sinora?!?!?...).
Anche un bambinetto un po’ rannuvolato come me si rendeva conto che fra città e campagna passavano delle belle differenze. In città c’era tutto di più: più case, più strade, più gente, più asfalto, più auto, più finestre, più lampioni, più persone a spasso col cane, più cani a spasso senza padrone, più marciapiedi, più cacche di cani sui marciapiedi, ma soprattutto c’erano più scritte.
Scritte di su, scritte di giù, scritte di traverso, scritte grandi, piccole e medie. Scritte dal cielo a sotto i piedi, scritte dappertutto: “Stop”, “salumeria”, “su entrambi i lati”, “Upim”, “Ferramenta”, “Banca Popolare Civico Navale”, “bevete questo”, “mangiate quello”, “digerite quell’altro”.
Dal basso della mia proporzione bimbesca piazzata sul sedile posteriore, mi lasciavo attraversare da quel flusso alfabetico impetuoso, godendomi ogni singola sillaba che si riformava tangibile nella mia fantasia, mentre gustavo a piene sinapsi l’atto di ripetere mentalmente ogni parola.
C’erano parecchi aspetti belli di questa faccenda, sfumature che forse solo un bambino con la mente ancora linguisticamente in via di formazione, poteva apprezzare. Da grandi ci abituiamo a trattare le parole come se fossero etichette appiccicate sopra le cose da esse denominate. Invece no, per un bambino la parola (in virtù di una qualche sorta di magia attraverso cui tutti siamo passati ma che nel ricordo purtroppo non ritrova più la sua forza originaria), per un bambino, dicevo, in qualche modo la parola “è” la cosa stessa sulla quale essa si posa. La parola per un bimbo ha un qualcosa di fisico e di emozionale.
Sotto questo aspetto, il bambino è ancora in un certo senso un po’ medievale e un po’ un omino delle caverne. Attraverso le scene di caccia istoriate sulle pareti della sua grotta, l’uomo preistorico “pre-vive” la caccia stessa. Dimensione mentale e realtà si con-fondono, un po’ secondo un meccanismo simile a quanto accade nella simbologia medievale.
Medioevo e preistoria attraversavano anche il sedile posteriore della macchina di mio babbo, durante quelle spedizioni in città (e non solo nel senso che mio babbo ha sempre preferito comprare auto usate…).
Era divertente sentire le sillabe camminare con le proprie zampette contro la pareti della mia immaginazione. Le parole scorrevoli lette attraverso la cornice del finestrino si arrotolavano silenziose sulla lingua muta, senza tanto badare se il significato corrispettivo che si andava a formare nella mente fosse realistico o no. Mi facevo una scorpacciata di vocali e consonanti dalle mille fogge che nel loro alternarsi mutevole, nel loro abbracciarsi sonoro sbocciato nella mia testolina curiosa, immaginavo colorate delle più diverse sfumature.
Ed forse è in questo modo che poi si finisce per addentrarsi negli anfratti di un’infanzia strana, ma alquanto immaginifica.
Ricomincio.
Ricordo che sin da quando ero piccolo ho sempre sentito parecchio il fascino della parola scritta. In particolare, capitava un evento periodico che attraverso i miei occhi di piccolo sognatore verbale si tramutava nella “gran sagra luminosa dell’alfabeto”: il giro in città.
Potrà sembrare strano, ma fino al giorno del mio ingresso al liceo, sarò stato in città forse non più di una quindicina di volte. Tanto per dare il senso della mia estrema “dis-urbanità” fino a quel momento: addirittura, le prime sere di quel mio primo anno scolastico lontano dal paese, andavo a letto con il pensiero di dover attraversare, la mattina seguente, l’ampio vialone trafficatissimo ai cui margini la corriera depositava la marmaglia studentesca. Una cosa per la quale mi sono sentito sempre abbastanza ridicolo, ma che ora, ripensandoci a distanza di anni, devo dire mi procura un piccolo moto di bizzarro orgoglio.
Stavo dicendo dunque dei rari giretti della mia infanzia alla volta della città. Di solito succedeva per qualche acquisto, scarpe, vestiti et similia, roba che mi ha sempre esaltato poco, a parte le volte che magari era prevista anche la compera di qualche giochino nuovo, soprattutto se si trattava di qualche scatola degli adoratissimi LEGO (…devo segnarmi di scrivere qualcosa sui LEGO…come ho fatto a non pensarci sinora?!?!?...).
Anche un bambinetto un po’ rannuvolato come me si rendeva conto che fra città e campagna passavano delle belle differenze. In città c’era tutto di più: più case, più strade, più gente, più asfalto, più auto, più finestre, più lampioni, più persone a spasso col cane, più cani a spasso senza padrone, più marciapiedi, più cacche di cani sui marciapiedi, ma soprattutto c’erano più scritte.
Scritte di su, scritte di giù, scritte di traverso, scritte grandi, piccole e medie. Scritte dal cielo a sotto i piedi, scritte dappertutto: “Stop”, “salumeria”, “su entrambi i lati”, “Upim”, “Ferramenta”, “Banca Popolare Civico Navale”, “bevete questo”, “mangiate quello”, “digerite quell’altro”.
Dal basso della mia proporzione bimbesca piazzata sul sedile posteriore, mi lasciavo attraversare da quel flusso alfabetico impetuoso, godendomi ogni singola sillaba che si riformava tangibile nella mia fantasia, mentre gustavo a piene sinapsi l’atto di ripetere mentalmente ogni parola.
C’erano parecchi aspetti belli di questa faccenda, sfumature che forse solo un bambino con la mente ancora linguisticamente in via di formazione, poteva apprezzare. Da grandi ci abituiamo a trattare le parole come se fossero etichette appiccicate sopra le cose da esse denominate. Invece no, per un bambino la parola (in virtù di una qualche sorta di magia attraverso cui tutti siamo passati ma che nel ricordo purtroppo non ritrova più la sua forza originaria), per un bambino, dicevo, in qualche modo la parola “è” la cosa stessa sulla quale essa si posa. La parola per un bimbo ha un qualcosa di fisico e di emozionale.
Sotto questo aspetto, il bambino è ancora in un certo senso un po’ medievale e un po’ un omino delle caverne. Attraverso le scene di caccia istoriate sulle pareti della sua grotta, l’uomo preistorico “pre-vive” la caccia stessa. Dimensione mentale e realtà si con-fondono, un po’ secondo un meccanismo simile a quanto accade nella simbologia medievale.
Medioevo e preistoria attraversavano anche il sedile posteriore della macchina di mio babbo, durante quelle spedizioni in città (e non solo nel senso che mio babbo ha sempre preferito comprare auto usate…).
Era divertente sentire le sillabe camminare con le proprie zampette contro la pareti della mia immaginazione. Le parole scorrevoli lette attraverso la cornice del finestrino si arrotolavano silenziose sulla lingua muta, senza tanto badare se il significato corrispettivo che si andava a formare nella mente fosse realistico o no. Mi facevo una scorpacciata di vocali e consonanti dalle mille fogge che nel loro alternarsi mutevole, nel loro abbracciarsi sonoro sbocciato nella mia testolina curiosa, immaginavo colorate delle più diverse sfumature.
Ed forse è in questo modo che poi si finisce per addentrarsi negli anfratti di un’infanzia strana, ma alquanto immaginifica.
4 commenti:
anche l'assenza della playstation o il dosaggio omeopatico della televisione hanno questo effetto... belle parole sulle parole gilly ... strana sintonia di post oggi, scrivo il mio e poi leggo il tuo e tutti a parlar di parole e di nulla :-)
grazie, Farly, molto gentile...in giro per playstation non ci bazzico tanto, anzi, proprio niente :-) per cui non sono molto addentro ai suoi effetti psico-esistenziali...
so però che hai scritto una cosa molto bella sul tuo blog, che ho letto con grande piacere...parole e nulla: what else? :-) quando uno può gustarsi parole e nulla, cosa può desiderare di più? :-)))
non so... un vin brulè davanti al camino? :-)
acc...non ci avevo pensato :-) però forse vin brulè e camino sono più belli anche per la suggestione prolifera che recano in sè... :-)
uhm, no eh?...è proprio il vino ed è proprio il fuoco, che contano...:-) hai voglia a inciuccarti e scaldarti di parole :-)
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