"...A'n ghé mìa pö lì fümèri àd dà ché indré...".
Cogliendo per ora solo in parte una suggestione gentilmente evocata da quella gran simpatichina della Farlocca (con la promessa di coglierla in pieno prossimamente), inizio questo mio nuovo modesto scribacchiamento con una frase in dialetto, un adagio che sin dai tempi della mia bambinitudine ho spesso sentito risuonare sulle labbra dei più vecchi in paese:
"...Non ci sono più le nebbie dei tempi andati...".
A dire il vero la considerazione l'ho sentita spesso applicata ai più svariati fenomeni atmosferici:
"...A'n ghé mìa pö lì n'vàdi àd dà ché indré..." (le nevicate)...
"...A'n ghé mìa pö lì brinàdi àd dà ché indré..." (le brinate)...
"...A'n ghé mìa pö lì slàdi àd dà ché indré..." (le gelate)...
"...A'n ghé mìa pö lì rusàdi àd dà ché indré..."(le rugiade)...
"...Non ci sono più le nebbie dei tempi andati...".
A dire il vero la considerazione l'ho sentita spesso applicata ai più svariati fenomeni atmosferici:
"...A'n ghé mìa pö lì n'vàdi àd dà ché indré..." (le nevicate)...
"...A'n ghé mìa pö lì brinàdi àd dà ché indré..." (le brinate)...
"...A'n ghé mìa pö lì slàdi àd dà ché indré..." (le gelate)...
"...A'n ghé mìa pö lì rusàdi àd dà ché indré..."(le rugiade)...
Ma l'evento naturale più peculiare della mia terra, quello che meglio si conforma al genius loci dei miei loci, quello che con le proprie caratteristiche psico - prossemic - tradizional - geografic - spirituali maggiormente riecheggia il carattere stesso di noi villici indigeni, è proprio la nebbia.
La nebbia è tanto apparentemente inutile e impalpabile, quanto densa di significati extra-meteorologici. Anche la rugiada e la brina, così, ad una prima analisi da inesperto, servono a poco. La nebbia però, a ben pensarci, supera alla grande entrambe, perchè è proprio l'essenza del futile. L'unico suo scopo sembra essere quello di toglierti la visuale, accorciarti le prospettive, far involvere su se stesso il tuo campo visivo.
Questo gioco spazio-esistenziale in qualche modo è ben riflesso nell'indole dei miei conterranei: al di là delle diversissime sfaccettature dei singoli caratteri, sono per lo più tipi tendenti ad una svagata introversione. C'è un tocco di bonaria follia dentro ciascuno. Un misto di malinconia fiduciosa che rende capaci di ritrovare sempre dentro di sè un punto di riferimento leggermente allucinatorio ma a suo modo dotato di una saldezza che rassicura.
L'effetto che in questo senso una nebbia veramente potente (..."lì fümèri àd dà ché indré...") sa provocare è una sorta di straniamento molto intenso e singolare.
In un famosissimo passaggio del capolavoro felliniano "Amarcòrd", la nebbia diventa essa stessa personaggio del film, quando avvolge lo smarrimento del nonno della famiglia, che vaga in questo abbraccio vaporoso pur mantenendo sulle labbra il suo incrollabile sorriso e sottolineando il proprio andirivieni nell'inconsistente paesaggio con la dolce cantilena del suo accento romagnolo.
La vera nebbia di una volta ti risucchia, ti attrae, ti porta dentro sè.
Ricordo di aver vissuto la più intensa esperienza di questo tipo durante un inverno che mi era scoppiata la mania del gioco della carte. Doveva essere l'anno della prima media e passavo pomeriggi senza fine al bar, ritornando a casa puzzolente di fumo come uno scaricatore di porto.
Nel tardo pomeriggio di una giornata potentemente nebbiosa, coi miei amici optammo per un alternativo giretto in bici per le strade del paese già buie a quell'ora.
Causa la spiccata "fede meccanicistica" di mio babbo (non nel senso di un suo rifarsi a fondamenti democritei o cartesiani, ma proprio in riferimento alla sua passione di sempre per macchine e ogni aggeggio dotato di metallico funzionamento), le mie bici sono sempre state dotate di fanali potentissimi. Anche il mio velocipedo di allora sparava luce a profusione una volta lanciato ad indicibile velocità lungo le stradine di campagna, con somma invidia dei miei amici perennemente "sfanalati" o quasi.
In quella circostanza, il fascio luminoso era un cono molto denso di nebbia lattiginosa, di una forza ipnotica inusitata. Non avevo mai provato così intensa quell'impressione di essere "richiamato " dalla nebbia. Era un muro bianco nella notte incipiente, un muro capace inspiegabilmente di assorbirti dentro la sua compattezza evanescente, un qualcosa dotato di una concretezza talmente incosistente da far capire meglio di ogni altro fenomeno reale il senso della parola "paradosso".
Terminato il giro, facemmo una capatina nel bar e per contrasto tutto dentro al locale mi sembrava di una compattezza visiva mai provata prima e forse mai più nemmeno in seguito. La mia vista andava a zonzo sulle cose dentro al bar come se gli occhi possedessero loro zampettine prolungate tutto intorno. E' stata la volta in cui la sensazione di vedere e quella di toccare sono state lì lì per diventare un tutt'uno sensoriale.
Una cosa mai più provata dopo, credo.
La nebbia è tanto apparentemente inutile e impalpabile, quanto densa di significati extra-meteorologici. Anche la rugiada e la brina, così, ad una prima analisi da inesperto, servono a poco. La nebbia però, a ben pensarci, supera alla grande entrambe, perchè è proprio l'essenza del futile. L'unico suo scopo sembra essere quello di toglierti la visuale, accorciarti le prospettive, far involvere su se stesso il tuo campo visivo.
Questo gioco spazio-esistenziale in qualche modo è ben riflesso nell'indole dei miei conterranei: al di là delle diversissime sfaccettature dei singoli caratteri, sono per lo più tipi tendenti ad una svagata introversione. C'è un tocco di bonaria follia dentro ciascuno. Un misto di malinconia fiduciosa che rende capaci di ritrovare sempre dentro di sè un punto di riferimento leggermente allucinatorio ma a suo modo dotato di una saldezza che rassicura.
L'effetto che in questo senso una nebbia veramente potente (..."lì fümèri àd dà ché indré...") sa provocare è una sorta di straniamento molto intenso e singolare.
In un famosissimo passaggio del capolavoro felliniano "Amarcòrd", la nebbia diventa essa stessa personaggio del film, quando avvolge lo smarrimento del nonno della famiglia, che vaga in questo abbraccio vaporoso pur mantenendo sulle labbra il suo incrollabile sorriso e sottolineando il proprio andirivieni nell'inconsistente paesaggio con la dolce cantilena del suo accento romagnolo.
La vera nebbia di una volta ti risucchia, ti attrae, ti porta dentro sè.
Ricordo di aver vissuto la più intensa esperienza di questo tipo durante un inverno che mi era scoppiata la mania del gioco della carte. Doveva essere l'anno della prima media e passavo pomeriggi senza fine al bar, ritornando a casa puzzolente di fumo come uno scaricatore di porto.
Nel tardo pomeriggio di una giornata potentemente nebbiosa, coi miei amici optammo per un alternativo giretto in bici per le strade del paese già buie a quell'ora.
Causa la spiccata "fede meccanicistica" di mio babbo (non nel senso di un suo rifarsi a fondamenti democritei o cartesiani, ma proprio in riferimento alla sua passione di sempre per macchine e ogni aggeggio dotato di metallico funzionamento), le mie bici sono sempre state dotate di fanali potentissimi. Anche il mio velocipedo di allora sparava luce a profusione una volta lanciato ad indicibile velocità lungo le stradine di campagna, con somma invidia dei miei amici perennemente "sfanalati" o quasi.
In quella circostanza, il fascio luminoso era un cono molto denso di nebbia lattiginosa, di una forza ipnotica inusitata. Non avevo mai provato così intensa quell'impressione di essere "richiamato " dalla nebbia. Era un muro bianco nella notte incipiente, un muro capace inspiegabilmente di assorbirti dentro la sua compattezza evanescente, un qualcosa dotato di una concretezza talmente incosistente da far capire meglio di ogni altro fenomeno reale il senso della parola "paradosso".
Terminato il giro, facemmo una capatina nel bar e per contrasto tutto dentro al locale mi sembrava di una compattezza visiva mai provata prima e forse mai più nemmeno in seguito. La mia vista andava a zonzo sulle cose dentro al bar come se gli occhi possedessero loro zampettine prolungate tutto intorno. E' stata la volta in cui la sensazione di vedere e quella di toccare sono state lì lì per diventare un tutt'uno sensoriale.
Una cosa mai più provata dopo, credo.
"...A'n ghé mìa pö lì fümèri àd dà ché indré...", dicono i vecchi. Ma forse è solo il fatto che nel corso della gioventù sono le sensazioni medesime ad essere giovani.
(*) = "Foggy notion" - The Velvet Underground (1969)
(*) = "Foggy notion" - The Velvet Underground (1969)
3 commenti:
:-) bel post, gil
nebbiosamente mi associo: bello! :-)
a noi qui, in terronia (direbbero certi simpaticoni) quel senso di bianco avvolgente è abbastanza estraneo. solo una volta, dalle tue parti, ho visto la nebbia quella vera, non so come era una volta, ma quando l'ho vista io, si vedeva davvero solo quella ed io mi sono persa a piedi :-)
@-> Rose: Grazie, sei sempre carinissima :-)
@-> Farly: grazie per il nebbioso apprezzamento, mi fa tanto piacere :-) la nebbia rimane in ogni modo un mistero molto evocativo...
molto poetica e tenera l'idea di una Farlocca persa nelle bruma :-)
Posta un commento