venerdì 27 febbraio 2009

Quel parcheggio modernista


Oggi, mentre mi incamminavo verso l'ufficio, notando due macchine parcheggiate l'una a pochi millimetri dall'altra, ho capito meglio il senso dell'arte moderna (o meglio, di una buona parte di essa).

Non che prima fossi a digiuno completo di estetica contemporanea. E nemmeno è da dirsi che ora ne sia divenuto quel gran esperto. Più semplicemente, ne ho colto un "aspetto applicato".
Mi riferisco qui in particolare ad una delle più grandi rivoluzioni portate dall'arte moderna: l'affrancamento dalla verosimiglianza.
Da un certo momento in poi, gli artisti hanno rinunciato alla pretesa della "mimesis", ossia della trasmissione di significati esistenziali effettuata tramite riproduzione del reale preso come un tutto organico. Il reale è stato invece suddiviso in "quanti estetici" emotivamente e significativamente circoscritti.
In questo senso, i sacchi di Burri o i tagli di Fontana non sono opere meno realistiche del Tondo Doni o della Gioconda. Anche le opere moderne cosiddette astratte traggono infatti il loro spunto dal reale, non potrebbe essere altrimenti. E' sempre una questioni di sensi, quella che è messa in gioco.
Con la differenza che la modernità ha scomposto il fenomeno estetico nei suoi elementi di forza visiva, nelle sue correnti compositive, nei suoi meccanismi di base.
Nell'arte pre-moderna, quegli elementi erano altresì presenti, ma rimanevano integrati, incastonati senza soluzione di continuità nel "tutto visivo".
L'arte pre-moderna trattava il reale come un flusso piovoso, mentre l'arte moderna si è addentrata nella considerazione goccia per goccia di quella pioggia.

Cosa c'entra tutto questo con due macchine parcheggiate, per dirla con finezza estetica superiore, muso a culo quasi incollate?
Il particolare mi ha colpito perchè non è usuale nella città medio-piccola in cui lavoro. Qui le auto sono solitamente belle infilate con buoni 30 o 40 cm. di distacco l'una dall'altra.
La parcheggiata appiccicata l'ho vista spesso invece a Milano, anzi lì è proprio la consuetudine, così come in altre metropoli italiane in cui sono stato, ad esempio Roma. Nel mio immaginario è un emblema di metropoli.
Ecco allora come la mia attenzione è stata catturata stamattina da un "quanto visivo" significativamente riferito ad un contesto del tutto diverso da quello in cui lo vedevo.
La casualità di uno sguardo sfuggente lo aveva isolato e messo in rilievo, ma qui, nella mia piccola cittadina, non aveva meno forza significativa di quanta ne avesse nei suoi contesti più usuali macro-urbani. Era solamente più evidente, in quanto individuato nella sua singolarità.
Credo che gli artisti moderni abbiano in un certo senso fatto qualcosa di simile. Certo loro, evidenziando significati del reale ben più nobili dal mio, ma l'operazione estetica in gioco non è molto dissimile.
O almeno credo...

mercoledì 25 febbraio 2009

Quando la protesi ti si rinfaccia


Quando sto a lungo davanti al pc, la mia mente, già fortemente debilitata e provata di sua natura, si “in-compiuterisce”.

Una volta lessi di una “metaforizzazione-similitudine” molto efficace, riguardante gli oggetti coi quali, nel corso della sua millenaria avventura, l’uomo si è circondato per sfangarla un po’ meno duramente in questa vitaccia.
Mi riferisco a tutte le invenzioni, gli attrezzi, i marchingegni e le diavolerie escogitate per portare all’esterno di sé capacità o facoltà già insite nella costituzione psico-fisica umana, amplificandone gli effetti.
Quella metafora infatti parlava giusto a proposito di “protesi”.
Il coltello si può considerare allora come protesi dei denti; la zappa, come protesi delle mani e delle unghie; il vestiario come protesi della pelle (e andando ancora più verso i nostri bisnonni primitivi, come protesi del folto pelo di produzione propria che potevamo sfoggiare quando avevamo ancora la coda); gli occhiali e ammennicoli ottici vari, come protesi della vista; la scrittura, come protesi della parola; e via via “protesizzando” di questo passo, si può arrivare sino al calcolatore elettronico come protesi del nostro pensiero.
Fin qui il discorso è piuttosto elegante e suggestivo.
Non so a voi, ma a me, così, anche come immagine di per sé, fa un certo effetto pensare alle mie unghie che si trasferiscono nella zappa e diventano più potenti; alla mia voce che si adagia fra le lettere scritte e lì diventa cosa ben più elegante e nobile di quanto non sia la mia loquela zoppicante; oppure ancora, al mio pensiero che fluisce fra i bit e i chip che riecheggiano fra i RAM (…e dopo questa, se i tre/terzi dei sei/mezzi di lettori che ho, abbandonassero sdegnati la lettura, me lo sarò solo meritato…).
Fin qui tutto bene insomma, tutto suggestivo e metaforico e compagnia bella come si deve.

La faccenda strampalata succede tuttavia quando la protesi ti ritorna indietro come un boomerang e si mette a dettare lei le regole alla “fonte umana” da cui si era distaccata. Per fortuna non mi sto riferendo al caso in cui la zappa ti ritorna sulle unghie, ma come dicevo in apertura, parlo di quando, dopo un prolungato uso del pc, il “ragionar computerese” ti si insinua fra le sinapsi e le va a rimodellare.
Allora succedono cose buffe, che possono specificarsi con svariate modalità.
Per farmi capire meglio citerò solo due esempi più “universali”, perché legati a due comandi molto usuali e diffusi in tutte le applicazioni windows: il pennellino “applica proprietà” e la freccetta azzurrina arrotolata dell’undo (“annulla digitazione”).

Nel pennellino sono incappato proprio di recente.
Causa una fugace visione in corridoio, ho scambiato la collega di lavoro X, per la collega Y, molto somigliante alla prima. Senza motivo di predilezione particolare per l’una o per l’altra, la mia mente, tratta in inganno sul momento, era ormai convinta di vedere Y. Una volta visto meglio che si trattava invece di X, mi è scappato irrefrenabile l’istinto di andare a pescare il pennellino nella toolbar del mio pensiero, per applicare le caratteristiche di Y ad X.
Il bello è poi che, dopo tali “epifanie informatiche”, quando quasi all’istante ti sei ripreso dal lapsus interiore, ti senti pure straniato e anche soffusamente idiota.

L’undo, volendo, è ancora più subdolo e pericoloso. La salvifica freccettina svirgolata la ricerco infatti spesso fra le mie opzioni esistenziali ogni volta che faccio una qualche cazz…scempiaggin…ata, di qualsivoglia natura o gravità.
Qui la delusione è molto più cocente, perché ti ritrovi immancabilmente solo con la tua cazz…sciempiaggin…ata. Ti accorgi che non era una “digitazione”. Tanto meno “unduabile”.
E’ una sensazione molto parente di quelle provate al risveglio da certi sogni, mentre nella mente ti risuona la sciocca ma solida considerazione che se la vita fosse uno schermo di pc, forse le cose sarebbero meno difficili.

lunedì 23 febbraio 2009

L’impiccion cortese


Alle mie già acclarate caratteristiche di pigro orso campagnolo, asociale, con discreta propensione alla nuvolosità concettuale, andrebbe aggiunta anche la qualifica di “impiccione cortese”.
“…Di bene in meglio!...”, esclamerà con giubilo lo stuolo di leggiadre donzelle sgomitanti in fila rissosa, nel tentativo di depositare la domanda in carta bollata per “domandarmi in isposo”.
Ma vi prego…vi prego, signore e signori!!!...non venite subito a conclusioni affrettate: esercitare l’impiccionaggio cortese non è pratica così molesta come si potrebbe erroneamente arguire dall’espressione presa di per sé.
Potrà suonare strano, ma l’impicciarsi cortesemente non ha niente a che vedere con la curiosità morbosa, il pettegolezzo, o il farsi i fatti degli altri. O meglio, per paradosso, è un farsi i fatti degli altri esattamente nell’ottica del rispetto per gli altri.

Da quando lavoro in questo posto qui in cui sto lavorando (il ragionamento fila, mi pare…), sono entrato nel tunnel dell’open space. Questa diavoleria americana di metter giù la gente al lavoro come tante marionette su uno smisurato palcoscenico, crea strani meccanismi interpersonali e prossemici.
Uno degli effetti open-spaziali più evidenti è proprio il venire a conoscenza di tante persone, rimanendo tuttavia tale familiarità a livelli molto superficiali (a parte i tre o quattro colleghi coi quali collabori in modo contiguo e diretto).
Ed è qui che scatta il campagnolismo più eclatante, dal quale in seconda battuta deriva anche l’impiccionaggio cortese.
Ho già trattato un’altra volta della differenza fra “tipo metropolitano” e “tipo provinciale”: ecco, quando sono immerso nell’open-space mi sento “metro-provinciale”, con ricadute campagnolesche frequenti.
Da una parte non me la sento di conoscere con più di tanto approfondimento le decine di persone che passano in rassegna tutti i giorni sulla croisette open-spaziale, troppa sarebbe l’energia psichica richiesta per l’improbo compito (e qui sta la componente da “tipo metropolitano”).
Ma nello stesso tempo non mi va nemmeno di vedermi passare davanti simulacri di umanità svuotata (e qui sta la componente da “tipo provinciale”).
Ciascuna persona è una storia che si muove e si auto-racconta, un libro rilegato sulle pagine dei giorni della propria vita. Trattare gli altri con superficialità e distacco non è sintomo di superiorità. Al contrario, è perdita continua di patrimoni inestimabili che dagli altri potenzialmente potremmo ricevere.
Anche la persona all’apparenza più insignificante, reca dentro di sé una scintilla di bellezza.
Prendete me, tanto per fare un eccellente esempio di insignificanza umana: se io fossi un altro e vedessi passare “me” per la strada, penserei: “…minchia che tipo sciapo e anonimo...però anche lui deve avere qualcosa di decente, dentro…”.

Come conciliare tuttavia una sana asocialità con il desiderio di continuare a “leggere” un po’ più nel profondo le persone con cui si viene in contatto?
Ecco che giunge in aiuto l’impicciata cortese.
Ci sono tanti mezzi per imbastire piccole indagini innocue, del tutto in buona fede.
Tipo fare mini-interviste a chi conosce un po’ meglio certe persone, oppure ricercare sull’elenco dei recapiti interni per capire di cosa si occupa il tale o la tal collega, e una volta colti alcuni indizi più corposi, in taluni casi si può approfondire sul web la conoscenza di certe persone che magari svolgono anche ruoli “sociali-pubblici” più evidenti (attività di volontariato, sportive, culturali, e così via).

Come dicevo, non si tratta di morbosità al fine di chissà quali intenti pettegoli. E’ solo il desiderio di sapere che quel tale che magari saluti appena al mattino, passando in mezzo alle postazioni più distanti, non è un automa, una sbiadita appendice del terminale video che ha di fronte, ma è una persona viva, è una storia, fatta di interessi ed entusiasmi, impensati fino a quando ci si mantiene alla conoscenza del suo semplice aspetto superficiale, colto al volo distrattamente.
Impicciarsi dei fatti altrui non è quindi solo e sempre un fatto di invadenza e maleducazione: mantenendo la cosa nel limite dell’urbanità e della discrezione più delicate, può anche assumere nobili sfumature, intenti di solidarietà umana soffusa e, oserei dire, di sintonia “felina” con il prossimo.

domenica 22 febbraio 2009

Modernità fumose


"...Purtroppo abbiamo anche l'umanità..." ho scritto alcuni giorni addietro, in forma di titolo-commento ad un video pescato su youtube, musicato con una canzone di Alberto Fortis.
Nessuno avrà capito cosa volessi dire, perchè in effetti non volevo dire quasi nulla.
Il senso di quell'intervento voleva essere concentrato tutto sulla bellezza della musica, che in qualche modo rappresenta sempre una fuga dalla realtà. La musica ci concede l'accesso a mondi talmente sublimi e superiori, che il "mondetto"(...Farly, perdonami per il diminutivo estremo...) ordinario della quotidianità, con le sue modeste e limitate dimensioni, non potrà mai nemmeno sfiorare.
E non so se è esperienza comune, ma perlomeno a me la musica fa questo effetto: mi rende alquanto superflua l'umanità. Non è un atteggiamento cattivo o snob, dell'umanità ho bisogno io come ne hanno bisogno tutti.
Si tratta invece solo di mettere se stessi fra parentesi per il tempo di una canzone o di una melodia, cullarsi per alcuni istanti nell'illusione di bastare a se stessi in quel piccolo mondo idealizzato di note.
Ecco allora il piccolo lembo di senso che poteva tenere insieme l'ascolto di una bella canzone e quella frase: "...Purtroppo abbiamo anche l'umanità...".

Ma vi devo spiegare un dettaglio in più: quella lapidaria affermazione parafrasava anche una buffa sentenza scaturita fra i fatti di paese campagnoli, qui dalle mie parti.
L'orizzonte ristretto di paese ha mille difettose implicazioni, non ultima una certa limitatezza mentale che spesso e volentieri piazza un bel paio di paraocchi alle prospettive della gente.
Però nel contempo, questa dimensione circoscritta ha anche il pregio di saper divenire il luogo di aneddoti e vicende che si caricano nel ricordo di un'affettività quasi mitologica, finendo per rappresentare un patrimonio culturale collettivo.
L'episodio legato alla frase è il seguente.
C'era una piccola fabbrica in paese, la chiamerò "Caudata" (tanto il nome vero non ha importanza), nata fra gli anni '50 e '60 ed oggi ormai dismessa, che era un po' l'orgoglio dell'imprenditoria locale, dando essa da lavorare ad un sacco di operai.
Si trattava tuttavia, almeno io credo, di un orgoglio mantenuto un po' "sub judice".
Nel senso che, sì va beh, quella fabbrichetta dava da mangiare a molti, ma non è che lavorare lì dentro fosse un idillio. Quasi tutti venivano dalla "libertà" del lavoro in campagna (che poi anche lì ci sarebbe da disquisire: "...Ah, signora mia, i bei tempi andati della servitù della gleba!!!...), e ritrovarsi di colpo imbrigliati in turni e compiti da catena di montaggio era stato un balzo notevole.
C'era poi il fatto che la meritoria fabbrichetta, regolarmente, ogni giornata lavorativa, alla stessa ora pecisa, "impuzzolava" il circondario con un nuvolone nero odor-uovo-marcio capace di fare venire la nostalgia più struggnete per il sano e penetrante odore di letame di vacca.
Capita un giorno in paese l'inviata del giornale di provincia, per una piccola indagine sulla realtà locale. Raccoglie impressioni fra la gente e sente diverse opinioni.
Fra gli intervistati c'è pure un tizio che non si sa bene se più per una sua acuita sensibilità nella critica sociale, oppure più per una scarsa dimestichezza con l'idioma italico (servendosi infatti egli regolarmente del dialetto come lingua ufficiale universale), elencando pregi e difetti del luogo, giunge al passaggio cruciale in cui, con una sublime perla ferma nel tempo la sospensione del giudizio generalizzata in paese circa i presunti vantaggi della modernità:
"...e poi, purtroppo, abbiamo anche la Caudata...".

venerdì 20 febbraio 2009

giovedì 19 febbraio 2009

Parola di Peato

(Fotomontaggio di Gillipixel)*

Ragionavo (…o sarebbe più corretto dire “sra-gionavo”…) sulle “specificazioni esistenziali” che ci sono capitate fra capo e collo in qualità di umani (noi esseri con recapito pianeta Terra, via Lattea, dimensione spazio-tempo, ecc.), e devo dire che c’è parecchio da ricavarne stupori, per una mente adusa a frequentare ambienti concettuali lietamente fuori di melone.

Aspetta, aspetta, aspetta, oh lettore irrequieto!!!…non mandarmi immantinente “al diavolo” (leggi “a fare in c…”) con un’altera sferzata di mouse: dammi almeno un secondo per cercare di spiegarmi.
Cosa sarebbero dunque queste “specificazioni esistenziali”?

Mah…sono un po’ tutto l’insieme di confini qualitativi e quantitavi entro i quali la nostra vita può avere luogo: una temperatura atmosferica grosso modo compresa fra i – 20 e i +40 gradi; il respirare ossigeno ed espirare CO2; il muoverci ad una velocità massima autonoma di circa 30 km./h. sulle superfici solide, rimanendovi attaccati e senza sprofondare fra i loro atomi; l’essere dotati di organi che ci consentono di accedere a 5 sensi e non di più (6 se si conta la propriocezione, via, mi voglio rovinare…); la ricerca di un altro essere simile e di sesso opposto, o uguale, o entrambi, per una propria “completezza affettuos-emotiva”; e così via.

Penso a queste cose e mi guardo una mano, ad esempio. Oppure, penso a queste cose e considero una bella donna. Presa nell’intervallo di “specificazione esistenziale” umana, la mia mano può sembrare un qualcosa di discrete proporzioni e forse anche elegante (ma non sta a me dirlo, ovvio), e a maggior ragione, sempre nel medesimo intervallo, una bella donna è forse la massima espressione relativa a quello “specificarsi esistenziale” ben preciso.

Ma usciamo un attimo dall’ottica “esistenzialmente specificata” umana, e guardiamo invece la mia mano o una bella donna dal punto di vista della “specificazione esistenziale” di un Peato (in onore di “paroleincerca”, il bloghetto di Farlocca, Rosalux e mio, ho pescato un vocabolo senza senso dalla verifica visiva blogspot per “battezzare” questo ipotetico esserino immaginato).

Il Peato respira metano ed espira ossigeno, a 387 gradi non gli viene nemmeno l’ombra di una goccia di sudore, si muove rotolando a palla (anche perché “è” una palla) fino a 522 km./h, possiede 16 sensi (i 10 suoi in più rispetto a noi umani non ve li so descrivere, altrimenti non sarei un uomo, bensì un Peato pure io, non vi pare?), può far passare le sue molecole attraverso la materia come in un setaccio (evitando di spiaccicarsi contro un muro se questo ad esempio intralcia la sua corsa), fa l’amore esclusivamente da solo per riprodursi, e non può tollerare la presenza di un suo simile nel raggio di 17 miglia marine.

Ora mi domando: come appariranno ad un Peato la mia mano o una bella donna? Io dico che nella migliore delle ipotesi potrebbe dichiararsi indifferente, o nel caso più pessimistico, potrebbe rimanere particolarmente schifato (non conoscendolo bene di persona, non posso garantire per i suoi gusti).

Ecco, alla fine di questo mio delirio, ci sarà chi si domanda: “…Embè?...E con questo?...”. No, niente, e con questo niente.
Volevo semplicemente condividere con voi un piccolo “esercizio di relatività”, per la prossima volta che ci sentiremo così orgogliosi e trombonescamente fieri di rappresentare esemplari di quel nobilissimo essere che passa sotto il nome di Uomo: ricordate solo che al Peato facciamo schifo!

(*) = Precisazione doverosa: il fotomontaggio è scherzoso, come di consueto, ma non vorrei essere frainteso: ci tengo a sottolineare che è escluso categoricamente ogni qualsivoglia intento derisorio riguardo al soggetto in sottofondo, la sublime Grace Kelly, a mio parere l’essere umano esteticamente “più perfetto” che sia mai esistito al mondo. All’uopo, gustatevela qui sotto in tutta la sua nitida meraviglia…lei sì, sarebbe piaciuta pure al Peato.

martedì 17 febbraio 2009

Purtroppo abbiamo anche l'umanità



Non amo tanto l'umanità quando sta sulle sue...ma ancor meno quando sta "sulle mie"!

domenica 15 febbraio 2009

La quadratura dell'infinito

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Tra i vantaggi dell'essere un campagnolo inveterato della più orsesca risma, c'è il fatto di poter godere in lungo e in largo di tanti ambienti monotoni e di sane abitudini ripetitive.
Mi sto accorgendo col tempo che la sfrenata mania contemporanea della ricerca di novità e sensazioni inedite, e a tutti i costi sempre più intense e forti...boh, sbaglierò...ma mi sto accorgendo che non ha tanto senso.
Almeno, questa è la mia impressione, ma sapete già che non sono mica tanto a posto, in genere.
Vorrei spiegarmi meglio, però.
Non sto dicendo che sia meglio rinchiudersi nelle proprie quattro certezze e dare un calcio in culo alla fantasia, alla curiosità, al desiderio di ampliare il proprio tesoro interiore culturale e spirituale. Non sarò tanto a posto, ma un'enormità del genere non la sentirete mai trapelare dalle mie parole.
Quello che voglio dire in sostanza, l'idea che ho pescato andando per pensieri oggi, la potrei mettere giù in questi termini: tutto nasce da quel lavorio interiore che rode l'animo di ogni umano, da quel sentirci noi esseri limitati e precari, ma al contempo interessati anche da una certa sete di infinito.
Come si possono conciliare le due cose? Una domanda da niente, proprio...direte voi...

E' difficile a dirsi, certo, ma tanto per cominciare, un'attitudine che mi sembra proprio del tutto sbagliata è quella della ricerca della novità a tutti i costi, o meglio, è depistante mettersi nell'ottica di voler vedere una progressione di novità a tutti i costi.
Io vedo questo atteggiamento esattamente come un gettare la spugna di fronte all'infinito, una dichiarazione di resa che afferma: d'accordo, hai vinto tu!
Un'ipotesi affascinante invece la possiamo vedere nel paradossale rinnovamento riservato dalla ciclicità: nessuna cosa o entità vivente è mai uguale a se stessa, pur conservando la propria identità, pur continuando a "ritornare continuamente a se stessa".
E' questo che intendevo in apertura riferendomi alla ripetitività e alla monotonia. La ricerca del nuovo nel noto: questo mi sembra il punto cruciale.
Forse in questo modo, chissà, la gente potrebbe stufarsi meno di vedere sempre le stesse persone intorno, imparando a vedere in esse sempre aspetti rinnovati.
Forse potrebbe apprezzare di più il ritorno della quotidianità tutti i santi giorni, imparando ad osservarla nel suo "statico rinnovamento ciclico".
E forse anche tu, paziente lettore, potrai capire meglio cosa minchia ho voluto dirti fino a questo punto, leggendo le parole di uno che sapeva scrivere veramente:

"...il mito è di sua natura monocorde, ricorrente, ossessivo. Come negli atti cultuali l'evidente monotonia non offende i credenti, bensì i tiepidi, così nella poesia. [...]
Del resto, dire stile è dire cadenza, ritmo, ritorno ossessivo del gesto e della voce [...].
La bellezza del nuoto, come di tutte le attività vive, è la monotona ricorrenza di una posizione. Raccontare è sentire nella diversità del reale una cadenza significativa, una cifra isolata del mistero, la seduzione di una verità sempre sul punto di rivelarsi e sempre sfuggente. La monotonia è un pegno di sincerità..."

"Raccontare è monotono"
In "Saggi letterari" - Cesare Pavese, 1949

giovedì 12 febbraio 2009

Segregator di mici e di costumi…

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Non mi è passata del tutto la sindrome del silenzio, ma qualcosa oggi mi sento di dirla.
Un po’ come dopo un’influenza: magari non ho proprio quella gran fame, ma un brodino lo assaggio volentieri insieme a voi.
E nella miglior tradizione del mio blog, fraseggerò un po’ sul nulla.
Vi volevo parlare della segregazione visiva e di riflesso anche un po’ di Platone, il caro vecchio “spalle larghe”.
“Segregazione visiva”…uhm…in realtà non ricordo bene se si dice propriamente così. Forse era “aggregazione”. Boh…in ogni caso anche se fosse segregazione, nel significato di cui vi voglio parlare qui, non ha niente a che fare con robe angosciose di gente che costringe altra gente, per fortuna.
Si tratta invece di una curiosa modalità secondo la quale il nostro apparato visivo funziona, e che quando ne ho sentito parlare mi ha causato una mini-epifania di tipo scientistico-gioioso.
Forse voi lo sapevate già, ma io prima di allora non lo sapevo: la nostra vista non funziona per niente come una telecamera. Nel senso, non è che abbiamo dentro una sorta di pellicola che riceve e registra passivamente le immagini. Il risultato della visione è invece frutto di un lavorio di costruzione dell’immagine (se così si può dire), per ottenere la quale serve la collaborazione non solo degli organi più strettamente deputati (occhi e loro ammennicoli diretti), ma in misura cruciale contribuiscono anche le scelte del cervello, della mente.
Una conferma di tutto ciò è data dal fatto che la capacità di vedere la si acquisisce da piccoli, la si impara come impariamo a camminare e a parlare.
Sembra strano a dirsi così, perché ad ognuno risulta di aver sempre visto le cose, e questa fase di apprendimento non consta più di tanto fra i propri ricordi.
Ma c’è una spiacevole controprova “in negativo” a questo dato: i ciechi che ormai adulti guariscano dalla cecità, difficilmente riescono a recuperare una capacità di vedere “corretta”, proprio perché non hanno attraversato le fasi di perfezionamento del meccanismo visivo nel momento più propizio, ossia durante l’infanzia (se ci sono psicologi della percezione in “sola lettura”, spero non svengano per le mie eventuali castronerie, e nemmeno per il modo un po’ raffazzonato con cui espongo le cose).
Per farla breve: cosa c’entra la segregazione (o aggregazione, boh…) visiva? In pratica si tratta di quell’operazione innescata più che altro dal cervello quando dà il suo contributo alla visione. La mente raggruppa (segrega, aggrega) i tasselli visivi provenienti dalla manovalanza ottica (luci, colori, sagome e simili filtrati dalla retina) e li “classifica” come oggetti noti o familiari.
Alcune leggi che stanno dietro questo fenomeno sono state ben studiate dalla corrente psicologica della Gestalt [Max Wertheimer (1880-1943) e soci], con esempi pratici molto interessanti e anche divertenti.
Va beh, esclamerete a questo punto: detto questo, dove minchia stiamo andando a parare?
Stiamo andando a parare nel fatto che quando guido la macchina, soprattutto se di sera o al mattino presto, e in generale con scarsità di luce, io segrego di continuo gatti, piccoli di fagiano, baldi leprotti o improbabili passanti, tutti quanti rigorosamente inesistenti.
Non so se vi è mai successo, ma in quelle condizioni di scarsa luminosità mista al fattore accelerante della velocità, a me capita di scambiare (per un milionesimo di secondo, prima di capire la realtà effettiva della sagoma) una macchia nera sull’asfalto, per un incauto micio attraversante; un cartello incelofanato, per un omino piantato lì insensatamente ad un incrocio; un cespo d’erbacce, per le orecchie vispe di una lepre sul ciglio della strada, e così via.
In quei casi mi pare di capire che la mia mente dia vita a segregazioni erronee, stanti le condizioni di particolare rapidità con la quale è chiamata a sentenziare la sua classificazione dell’oggetto che sto vedendo.
Sì, bene, e allora? Rumoreggerete di nuovo voi…ci avevi promesso cultura, Platonate a spalle larghe, e invece va a finire come sempre con le solite gillipixate ristrette…
Vi spiego dunque cosa c’entra Platone (o come mi pare di capire che c’entri).
Ricordate cosa diceva Platone: l’apprendimento è come una sorta di ricordo, di riscoperta di un patrimonio di sapienza già presente in noi, e chissà come obliato nel momento della nascita o giù di lì.
Ecco, questa cosa della segregazione visiva, apprendendola dalla psicologia, è come se l’avessi “ricordata”, in quanto presente in me come esperienza di fatto praticamente da sempre.
In questo modo, concettualizzando le realtà che già possediamo, perché presenti in noi o nel mondo che ci circonda, è come se ci facessimo interpreti di una doppia appropriazione di esse.
Ed aggiungerei che è questo che provo quando incappo in un'epifania (sia essa "del lettore"(*) o di altra natura): pare di gustarsi il paradosso di ricordare una cosa saputa da sempre.

Insomma, per concludere: ve lo avevo detto che non ero guarito bene dalla sindrome del silenzio…però vi avevo promesso un brodino, ma mi sa che non è riuscito proprio bello grasso di cappone o di gallina ruspante, ma liscio liscio, di dado, e pure un po’ scarso.

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(*) = toh, neanche a farlo apposta, il tema di questo sproloquio gillipixico si intona bene al link delle origini del mio "andarperpensieri"...

lunedì 9 febbraio 2009

Ignorante

Tornando con la mente ai vari scritti fatti passare in questi mesi sul mio bloghetto sgangherato, questa sera ho l'impressione che si tratti di un'altra persona. Non mi sembra si essere stato io ad aver scritto quelle cose. Non si tratta di me.
Mi leggo quasi come un saccente borioso che le ha sparate grosse. Stasera mi sento di non sapere nulla. Mi sento il più ignorante della terra, non so un'acca di libri, di letteratura, tanto meno di vita e di cosa prova la gente.
Non ho un'opinione su nessun argomento. Non so esprimere un giudizio, una valutazione, una riflessione su qualsivoglia questione.

Natale

Non ho voglia
di tuffarmi
in un gomitolo
di strade

Ho tanta
stanchezza
sulle spalle

Lasciatemi così
come una
cosa
posata
in un
angolo
e dimenticata

Qui
non si sente
altro
che il caldo buono

Sto
con le quattro
capriole
di fumo
del focolare

Giuseppe Ungaretti, 1916


(Foto e piccola elaborazione di Gillipixel)

domenica 8 febbraio 2009

Wastin' time

(Fotomontaggio di Gillipixel)

In questa domenica 8 febbraio, di questo efficentista, utilitarista, economicista, vitalista, un po' confusionario 2009, io ho buttato via la mia giornata.
E lo dico con una punta di soddisfazione, ripensando anche ai versi del vecchio Otis Redding:

"...I'm sittin' on the dock of the bay
Watching the tide roll away
Ooo, I'm just sittin' on the dock of the bay
Wastin' time..."

"...Sono seduto sulla banchina della baia
A guardare la marea andarsene
Sono seduto sulla banchina della baia
Sprecando il mio tempo..."

Non avevo a disposizione una "dock of the bay" e nemmeno una "tide rolling away", ma un letto e l'ultimo numero di Tex Willer li ho rimediati, così ho potuto sprecare tempo in santa pace.
Perchè leggere Tex non è propriamente tempo sprecato, si potrebbe obiettare, ma il fatto è che l'ho letto pure stancamente.
In una ventina
di pagine affrontate sonnecchiando, stavolta nemmeno Tex ha avuto tempo di accoppare nessun cattivone, se non fosse che hanno rimediato Kit Carson e Tiger Jack, stendendo un paio di banditacci della ghenga del Jefe Nacho Gutierrez, che stavano per fare la festa al loro vecchio amico Montales.

Ogni tanto, buttare via tempo fa bene. Un po' perchè puoi uscire dal tunnel della "vita organizzata", che ti prentenderebbe con ogni tuo minuto finalizzato ad uno scopo.
Invece no: di tanto in tanto, sentire che il tuo tempo non sta servendo esattamente ad una mazza di nulla, è liberatorio.
E poi perchè, una volta risucchiato nella ruota del tempo utile, magari ti sembra meno insensato, e ritrovi motivi freschi per continuare a stupirti ancora della realtà.

Uscir fuori per un po' dall'ansia utilitaria, dallo stress finalistico, dai sensi del dovere auto-colpevolizzanti, ogni tanto, fa bene.
Poter dire fra sè e sè: "...adesso voglio proprio mettermi lì a non fare proprio una beata minchia di niente...". Credo faccia bene allo spirito dei singoli, e per anarchica sommatoria sommersa, allo spirito dell'umanità tutta.

venerdì 6 febbraio 2009

…quel che amo in lei? E' 12 volte più luminosa

(Fotomomtaggio di Gillipixel)

Lo so che ormai avrei dovuto farci il callo da tempo.
Ma è più forte di me.
So anche che ci sono mille problemi più grandi e un po’ mi vergogno a far caciara per questa cosa. Ma nello spazio del mio bloghetto, come ho detto altre volte, cerco di tanto in tanto di andare a spiluccare proprio certi dettagli meno significativi del vivere, nella convinzione che anche quelli siano sintomo di questioni ben più grandi. E in ogni caso, se non come un tema di importanza capitale, vogliate prendere il tutto almeno come un’osservazione di costume.

Anche se nell’atmosfera consumistica ci sono cresciuto, ci ho sguazzato e ne ho tratto tutti i vantaggi innegabili che ne ho tratto (come chiunque altro “occidentale” medio), è più forte di me dicevo.

Quando sento canticchiare, sul motivo di una celeberrima canzone di Mina, che “è la banca per me, fatta apposta per me…ma quel che amo in lei è il 4 e 70…”, mi viene l’orticaria acuta, i miei coglioni vorrebbero telefonare all’ambasciata del Gabon per richiedere con urgenza asilo politico e mi freno a stento dal piazzare un colpo di mazza ferrata proprio in mezzo al video delle tele (primo, perché poi una nuova mica me la passa la mutua, secondo, perché una mazza ferrata non saprei nemmeno cosa sia).
E non riesco ad immaginare come sia possibile che ad una persona capace di intendere e di volere, dopo esser stato traghettato a tali estremi di deriva mentale, ben oltre le barriere più remote dell’orizzonte degli eventi demenziali, possa venire l’idea di andare a mettere il suo gruzzoletto proprio là.
Che poi dico: io ci voglio credere che sia pure una banca seria e che mantenga tutte le promesse che fa al 100%. Ma allora, a maggior ragione, perché si ostina ad immergersi in questo bagno di insulsaggine estetica?

Per la nota proprietà, cambiando l’ordine dei fattori, il prodotto non cambia.
Sempre grandi pruriti commutativi mi colgono infatti dappertutto quando sento ripetere che alla donna “alla moda” viene offerta la possibilità di sfoggiare “ciglia 12 volte più luminose”.
E qui gli interrogativi e i dubbi esistenziali si sprecano.
Il primo, ciclopico, sopra tutti, maestoso: ma perché?!?!?! Cui prodest?!?!?!
A parte che personalmente, ritrovare da un giorno all’altro una donna che conosco con un aumento voltaico nello sguardo di 12 volte, mi incuterebbe alquanto timore, per il resto, cosa se ne potrebbe ricavare di buono? Farle mettere fuori la testa dal finestrino per risparmiare batteria e fari abbaglianti le volte che ha accettato di uscire e si va al cine insieme in macchina?
Boh…sarò tonto e retrogrado io, e anche parecchio inesperto di moda e di donne alla moda, ma continuo a non capire.
E fosse finita qui. L’interrogativo più bello deve ancora venire. Ed è questo: ma la luminosità delle ciglia, ma per la minchia della suprema confraternita delle minchie, ma chi l’ha misurata?!?!?!
Ma soprattutto: esiste un’unità di misura per la luminescenza cigliare? Sarà forse il Cigliumen?
Oppure prendono come base empirica il bagliore di ciglio medio della casalinga media di Voghera (zone centro), e da quello calcolano i multipli? In questo caso l’unità di misura qual è, il CiglioMed? Il BatCigl?
E ancora: c’è uno strumento apposito, esistono tecnici specializzati in queste misurazioni? Le ditte di prodotti estetici si servono di questi “donni-mensori” anche per altre parti del corpo femminile? Se è così, lo dicano che invio subito il curriculum per farmi assumere.

Sapete cosa vi dico? Quasi quasi rivaluto lo spot delle cicche con lo scoiattolino venticellone…sempre che non salti fuori che pure lui “oggi ha preso il coupè”.

martedì 3 febbraio 2009

Giusto per rifarsi la bocca

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Benedetto sia 'l giorno, e 'l mese, et l'anno,
et la stagione, e 'l tempo, et l'ora, e 'l punto,
e 'l bel paese, e 'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m'ànno;

et benedetto il primo dolce affanno
ch'i ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l'arco, et le saette ond'i' fui punto,
et le piaghe che 'nfin al cor mi vanno.

Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e 'l desio;

et benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e 'l pensier mio,
ch'è sol di lei, sì ch'altra non v'à parte.

Francesco Petrarca

...non che io abbia poi quei gran punti o giorni da benedire...ma così, giusto giusto per darvi l'opportunita di leggere qualcosa di decente su questo blog, di tanto in tanto...

domenica 1 febbraio 2009

Fàt tusà!!!

(Fotomontaggio di Gillipixel)

Ieri sono stato dal barbiere. Non dal parrucchiere, nè dalla parrucchiera, tanto meno dal coiffeur. No, no. Proprio dal barbiere sono stato.
Il barbiere è un tipo "umano-socio-artigianale" in via d'estinzione. Non so se questo sia un bene o un male. Non so se valga tanto la pena rimpiangerlo o provare malinconia. Tutto prima o poi finisce, ogni epoca si porta dietro i suoi tratti piccoli e grandi, e quando l'epoca svanisce essi si attenuano insieme a lei. Funziona così e forse non vale tanto la pena domandarsi se sia giusto o no, oppure sprecare sentimenti in proposito: è così e basta.

Fatto sta che la figura del barbiere per me è ricca di significati e di ricordi. Da bambino vivevo sempre in modo conflittuale l'idea di dovermi recare in quel luogo. La capigliatura conquistata in alcuni mesetti di crescita me la sentivo affettuosamente addosso, in una sorta di equilibrio amniotico che reputavo ingiusto andare a turbare facendone partorire una rinnovata pelatina a furia di sforbiciate e smacchinettate.
Nel nostro dialetto poi non si dice "andare a farsi tagliare/acconciare/accorciare i capelli".
Si usa invece un'espressione cruda e dozzinale, evocante molto più tonsure ovili o falciature di prati che non interventi di aggiustamento della chioma con finalità estetiche.
Si dice infatti "andare a farsi tosare". L'espressione, sempre nel dialetto del mio paese, in un certo contesto ha assunto addirittura le veci di una sorta di "vaffa" in versione amichevole, meno cattivo e pungente del "vaffa" effettivo, una specie di "vai a girare", "vai a quel paese".
Questo succede quando si dice all'amico: "fàt tusà" ("fatti tosare").

Dal parrucchiere dunque si va a farsi l'acconciatura, mentre da bambino, dal barbiere del paese andavo a farmi tosare. Una volta entrato nella bottega e seduto sul vecchio trono girevole e polveroso, le mie remore iniziali svanivano come d'incanto.
I motivi di questa metamorfosi erano vari.
Un po' c'erano da ammirare dettagli ed ammenicoli barbierali vari.
Flaconi ed alambicchi simil-alchimistici, con enigmatici liquidi multicolore, tubi gommo-sinuosi e pompette di raso.
L'armamentario delle forbici con la temutissima "dentata", terrore delle mie orecchie e del mio roseo collo infantile.
Macchinette a mano di varie misure, che inevitabilmente tutte le volte mi ricordavano la macchinaccia per i cavalli, mastodontica (ma identica nella forma in modo inquietante a queste per "uso umano"), che a casa vedevo spesso in giro, rimasuglio dell'antica professione dei miei nonni, per generazioni trasportatori di merci su carri a traino equino.
E ancora, odori e profumi di creme, schiume, lozioni, lacche, acque di colonia, lo "scodellino" per il sapone da barba con il pennellone, ed il rasoio il cui uso a me competeva solo per un po' di pelurietta invisibile sul collo e dietro le orecchie, con ripulitura sulla schedina del Totocalcio fra una passata e l'altra.
Ma poi c'era il fatto che lì ti trovavi nel regno della chiacchiera maschile.
Non era previsto che io ci mettessi bocca, dato che ero un bambino, ma lì potevo saziare tutta la mia sete di ascolto, che come ho già detto in altre occasioni è sempre stata più forte della mia propensione a parlare. E se capitava di imbattersi in uno o due affabulatori di classe del paese, era una festa della fantasia e delle sonorità dialettali, meglio di tutti i canali di Sky e del digitale terrestre messi insieme, e di tutto il cinema in 3D più sofisticato che potranno mai escogitare.
Il calcio, ricordi di fatti del passato, episodi buffi legati al mondo contadino, dicerie e pettegolezzi circa il tale e la tale, affrontando anche passaggi scabrosi e proibiti (storie di amanti e pruriginosità varie), con l'abilità linguistica aggiuntiva di dover parlare in codice, alla presenza di un bambino (forse pur sapendo che alla fine già capivo benissimo tutto).
Sotto la coltre protettiva e placentare della mantellina "anti-ciocche tosate", mi coglieva regolarmente una sonnolenza lieve, cullato dal chiacchiericcio vitale e caciarone degli uomini, con il batter di denti della forbice che mi ritmava nelle orecchie.

Oggi in paese, di tre o quattro barbieri che erano, non ne è rimasto più nessuno. Adesso vado nel paesone più grosso, qui vicino, dove posso ancora farmi "tosare". Finchè dura. Un giorno poi, immagino che anche io sarò costretto a farmi acconciare i capelli.