Fotomontaggio di Gillipixel,
creato fondendo due foto scattate da Gillipixel...
(ogni tanto concedetemi di bullarmi un po' :-)
(ah...dimenticavo: e bici di Gillipixel :-)
creato fondendo due foto scattate da Gillipixel...
(ogni tanto concedetemi di bullarmi un po' :-)
(ah...dimenticavo: e bici di Gillipixel :-)
Da bambini giocavamo nelle case in costruzione.
Non ho mai sentito dire che in altri paesi questo gioco venisse giocato. Oggi non succede più nemmeno qui. Quando mai costruiscono una casa nuova, adesso, nel mio paese?
Allora era l’epoca in cui farsi una casa non era considerato privilegio super-umano. L’opzione esistenziale “costruirsi una casa”, possedeva ancora sfumature pressoché naturali. Non dico che fosse come respirare, oppure come bere un bicchier d’acqua, ma poco ci mancava. Perlomeno, nell’acerba intuizione di un bambino per le cose della vita, sembrava funzionare così.
Non che ai tempi l’essere adulti fosse un gioco da bambini. Tuttavia, con un onesto impiego, facendo la formichina per una ventina d’anni, riuscivi a tirar su una dimora più che dignitosa. Quelle cravatte di canapa a diametro variabile, oggi così di moda col nome di mutui, quasi non si sapeva cosa fossero.
Ma all’epoca queste cose non le sapevo. Non era importante che le sapessi.
Gli alberi crescevano. I fiori crescevano. I bambini crescevano. E così anche le case.
Crescevano.
Questo era tutto quanto mi serviva sapere.
Non ricordo bene come venisse scelta una casa invece di un’altra, per la scorribanda del giorno. «Dacci oggi la nostra avventura quotidiana!», forse era questo il solo criterio, ma allora nemmeno questo era fra i miei pensieri. Solo col senno di adesso mi sorge il “sospetto” che fossero i più grandi a stabilire un piano d’azione.
Più che “in costruzione”, la casa doveva trovarsi in quella “terra di nessun muratore”, situata a metà fra la fase del compimento del tetto e la successiva predisposizione delle finiture (serramenti, intonaci, piastrelle, ecc.).
Era in quel limbo di sospensione edile che la fantasia dei piccoli pirati dell’immaginario poteva andare ad insinuarsi. In tutti gli altri passaggi dell’iter costruttivo, non sarebbe stato possibile: la presenza di qualche forma di molesto operaio, insensibile alla sana formazione infantile, sarebbe stata d’intralcio.
Inutile dire che si trattava di un gioco abusivo e che la spada di Damocle della ronda del muratore, faceva parte delle regole fondamentali per assaporare meglio la ricetta.
Un misto di pericolo e di senso della violazione di intimità domestiche potenziali. Doveva essere questo che ci attirava tanto fra quei muri grezzi. Una sorta di innocuo “Grande fratello” ante litteram, paradossalmente rispettoso della privacy, perché tutto basato su immaginate vicende familiari ancora ben lontane dall’essere vissute.
Entravamo di soppiatto, col cuore in gola. Una sensazione da ladri, verosimilmente. Con la differenza che noi andavamo a rubare solo fantasie, per altro fabbricate in proprio.
Non so se nella vita a seguire ho mai più provato una sensazione simile. Avere 7 o 8 anni ed essere padrone per qualche mezz’ora di una casa. Abitarla come mai nessuno in seguito avrebbe più potuto fare, nemmeno i legittimi proprietari. Perché l’arredamento noi lo potevamo disporre con la mente in mille forme mutevoli, le porte ancora inesistenti potevamo immaginarle scorrere con automatismi alla “Spazio 1999”; per noi le scabre scale cementate si coprivano di velluto rosso per dare accesso a sontuosi saloni principeschi, mentre da una balconata ancora grezza si poteva dominare la sconsiderata infinità del nostro regno spaziante fino agli estremi confini del globo, ossia l’argine maestro del fiume.
Ma la sortita del «Maligno» era sempre in agguato, sotto le mentite spoglie del perfido muratore “incerberito”. In realtà, il poveretto aveva ragione da vendere: faticacce insulse con secchio e cazzuola per tutta la settimana, e poi anche l’onere di tenere a bada gruppetti di mocciosi impiccioni. All’epoca però anche questo non era previsto che dovessi saperlo.
Capirlo sì, ma saperlo no.
Era sufficiente l’eco di un’accelerata intrasentita in lontananza, il tramestio di una gomma di bici sulla ghiaia, un roco colpo di tosse edile rimbombante in fondo alla via, e subito il panico serpeggiava lungo i muri occupati dai piccoli corsari: «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!» (trad. «C’è il muratore…c’è il muratore!»).
Tra parentesi, la parola “muratore”, detta nel mio dialetto, impegna forse nella più ardua sfida di pronuncia immaginabile in ogni idioma mondiale: bisogna saper cucinare lingua ad involtino sotto al palato, in modo da dire la prima “ü” di “Dürer”, ma essere nel contempo sufficientemente lesti a ripianarla per bene subito dopo, passando alla pronuncia della seconda normalissima “u”.
Il più delle volte erano falsi allarmi: in fondo in fondo, lo sapevamo che il muratore preferiva di gran lunga starsene a sorseggiare il suo prosecco all’ombra dei tendoni del “Bar Sport”, ma ci piaceva immaginarlo sempre dietro l’angolo, pronto a seminare l’allarme fra le schiere dei ribaldi micro-invasori.
Due episodi, fra i tanti di queste avventure vissute dentro i muri della fascinazione infantile, mi sono rimasti impressi nella mente.
Uno dal sapore "mitologico". L'altro dai contorni burleschi.
Talvolta mi succede di ritrovare nei meandri della memoria lontanissimi fatti che, ricoperti dalla bruma del tempo fanciullesco, sono come condensati nella dimensione del "mito". Nel senso che si sono spogliati di ogni pretesa di verosimiglianza, rimanendo vestiti solo del manto dello stupore.
Fra questi va sicuramente ricondotto il primo frammento di memoria legato alle incursioni nelle case in costruzione. Quella volta eravamo in una casa piuttosto grande per il modulo edile medio locale. Tre piani, mi pare fossero.
Fra i "capi spirituali" leader della scorribanda, c'era una ragazzina di tre o quattro anni più grande di me. Di per sé, questa era una creatura dall'aura fatale, per noi sbarbatelli piccolini.
Da tempo in odore di eroica "maschiaccità", era una mezza leggenda della nostra infanzia, già protagonista di non meglio precisate narrazioni di passate monellerie di altissimo pregio.
Quello che compì quel giorno tuttavia superò ogni magia gestuale del repertorio del perfetto scavezzacollo in erba.
Non ricordo se fosse ancora una volta il fatidico allarme ad innescare il diapason della tensione, «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!»...fatto sta che nel giro di pochi secondi tutta la banda si ritrovò in posizione utile per la dignitosa battuta in ritirata. Tutti tranne "lei", la Pippi Calzelunghe dei nostri lontani giorni di "anarco-bimbetti", che con la sua consueta audacia si era spinta alle quote alte dell'edificio accessibili solo agli impavidi puri. E qui s'innesta la parte propriamente mitico-infantile, per cui sospendete pure per un momento l'incredulità, che in questi casi si fa superflua.
Vi potrei giurare infatti, anche se non fosse vero, che io la vidi "volare": dal primo o dal secondo piano, non saprei dire. So solo che l'ideale femminino della mia selvaggità bambina quel giorno prese il volo, lanciandosi nel vuoto da un terrazzo incompleto, fendendo l'aria con un urlo da vero bucaniere del Pernambuco, con le sue lunghe gambe nude che nuotavano nel vento ed i neri e fluenti riccioli schiumosi a sostenere l'abbraccio della planata.
Ricadde perfetta, scultorea ed in piedi, sana e salva come una statua della Grecia classica, coi piedi conficcati alla caviglia, sulla sommità di una soffice montagnola di sabbia fine, che era stata sin dall'inizio l'obiettivo del suo balzo mitologico.
L'altro episodio dai contorni buffoneschi, vide protagonista invece un altro amico che potrei definire storicamente un "farfallone" nei confronti degli aspetti "tecnici" della vita.
Il galateo del mini-pirata edile esigeva che spesso la casa in costruzione dovesse essere arrembata a piedi nudi.
Con la perfidia tipica dell'età acerba, ci divertimmo a rubare le stringhe dalle scarpe di questo amico bonaccione, da lui lasciate improvvidamente incustodite all'ingresso.
Lo scherzo si potrasse per lunghe estenuanti ore, al di là di ogni considerazione per l'umana pietà. Ma una sorta di bizzarra nemesi era pronta a calare sugli incauti "burlatori".
Alla fine la responsabilità della canzonatura aveva snervato gli stessi autori della beffa, non scevri da qualche filino di senso di colpa.
Mal ce ne incolse, una volta restituiti i dovuti "due" laccetti all'amico tontolone.
Perchè tutto quello era stato niente, al confronto della rullatura di maroni che dovemmo poi sorbirci fino all'imbrunire dal beffato medesimo, che sosteneva, insisteva e persisteva nella sua inconfutabile tesi, secondo la quale in ogni scarpa sono presenti normalmente due stringhe, totale quattro per paio, ragion per cui gliene dovevamo ancora due. Il suo fare avvocatizio bislacco ci perseguitò fin sulla soglia di casa, facendo barcollare il nostro equilibrio mentale stesso.
La sua proterva ottusità ci aveva alla fine storditi, facendoci ormai quasi dubitare del postulato di Ceneretola, che recita: per le asole di una scarpa passa uno ed un solo laccetto.
Anche qui non ricordo bene, ma mi pare che alla fine, per uscire vivi dalla sbilenca arringa itinerante, dovemmo far perdere le nostre tracce con qualche giro vizioso per le viuzze più contorte del paese, per seminare il molesto avvocato, gran segugio dell'assurdo.
Non ho mai sentito dire che in altri paesi questo gioco venisse giocato. Oggi non succede più nemmeno qui. Quando mai costruiscono una casa nuova, adesso, nel mio paese?
Allora era l’epoca in cui farsi una casa non era considerato privilegio super-umano. L’opzione esistenziale “costruirsi una casa”, possedeva ancora sfumature pressoché naturali. Non dico che fosse come respirare, oppure come bere un bicchier d’acqua, ma poco ci mancava. Perlomeno, nell’acerba intuizione di un bambino per le cose della vita, sembrava funzionare così.
Non che ai tempi l’essere adulti fosse un gioco da bambini. Tuttavia, con un onesto impiego, facendo la formichina per una ventina d’anni, riuscivi a tirar su una dimora più che dignitosa. Quelle cravatte di canapa a diametro variabile, oggi così di moda col nome di mutui, quasi non si sapeva cosa fossero.
Ma all’epoca queste cose non le sapevo. Non era importante che le sapessi.
Gli alberi crescevano. I fiori crescevano. I bambini crescevano. E così anche le case.
Crescevano.
Questo era tutto quanto mi serviva sapere.
Non ricordo bene come venisse scelta una casa invece di un’altra, per la scorribanda del giorno. «Dacci oggi la nostra avventura quotidiana!», forse era questo il solo criterio, ma allora nemmeno questo era fra i miei pensieri. Solo col senno di adesso mi sorge il “sospetto” che fossero i più grandi a stabilire un piano d’azione.
Più che “in costruzione”, la casa doveva trovarsi in quella “terra di nessun muratore”, situata a metà fra la fase del compimento del tetto e la successiva predisposizione delle finiture (serramenti, intonaci, piastrelle, ecc.).
Era in quel limbo di sospensione edile che la fantasia dei piccoli pirati dell’immaginario poteva andare ad insinuarsi. In tutti gli altri passaggi dell’iter costruttivo, non sarebbe stato possibile: la presenza di qualche forma di molesto operaio, insensibile alla sana formazione infantile, sarebbe stata d’intralcio.
Inutile dire che si trattava di un gioco abusivo e che la spada di Damocle della ronda del muratore, faceva parte delle regole fondamentali per assaporare meglio la ricetta.
Un misto di pericolo e di senso della violazione di intimità domestiche potenziali. Doveva essere questo che ci attirava tanto fra quei muri grezzi. Una sorta di innocuo “Grande fratello” ante litteram, paradossalmente rispettoso della privacy, perché tutto basato su immaginate vicende familiari ancora ben lontane dall’essere vissute.
Entravamo di soppiatto, col cuore in gola. Una sensazione da ladri, verosimilmente. Con la differenza che noi andavamo a rubare solo fantasie, per altro fabbricate in proprio.
Non so se nella vita a seguire ho mai più provato una sensazione simile. Avere 7 o 8 anni ed essere padrone per qualche mezz’ora di una casa. Abitarla come mai nessuno in seguito avrebbe più potuto fare, nemmeno i legittimi proprietari. Perché l’arredamento noi lo potevamo disporre con la mente in mille forme mutevoli, le porte ancora inesistenti potevamo immaginarle scorrere con automatismi alla “Spazio 1999”; per noi le scabre scale cementate si coprivano di velluto rosso per dare accesso a sontuosi saloni principeschi, mentre da una balconata ancora grezza si poteva dominare la sconsiderata infinità del nostro regno spaziante fino agli estremi confini del globo, ossia l’argine maestro del fiume.
Ma la sortita del «Maligno» era sempre in agguato, sotto le mentite spoglie del perfido muratore “incerberito”. In realtà, il poveretto aveva ragione da vendere: faticacce insulse con secchio e cazzuola per tutta la settimana, e poi anche l’onere di tenere a bada gruppetti di mocciosi impiccioni. All’epoca però anche questo non era previsto che dovessi saperlo.
Capirlo sì, ma saperlo no.
Era sufficiente l’eco di un’accelerata intrasentita in lontananza, il tramestio di una gomma di bici sulla ghiaia, un roco colpo di tosse edile rimbombante in fondo alla via, e subito il panico serpeggiava lungo i muri occupati dai piccoli corsari: «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!» (trad. «C’è il muratore…c’è il muratore!»).
Tra parentesi, la parola “muratore”, detta nel mio dialetto, impegna forse nella più ardua sfida di pronuncia immaginabile in ogni idioma mondiale: bisogna saper cucinare lingua ad involtino sotto al palato, in modo da dire la prima “ü” di “Dürer”, ma essere nel contempo sufficientemente lesti a ripianarla per bene subito dopo, passando alla pronuncia della seconda normalissima “u”.
Il più delle volte erano falsi allarmi: in fondo in fondo, lo sapevamo che il muratore preferiva di gran lunga starsene a sorseggiare il suo prosecco all’ombra dei tendoni del “Bar Sport”, ma ci piaceva immaginarlo sempre dietro l’angolo, pronto a seminare l’allarme fra le schiere dei ribaldi micro-invasori.
Due episodi, fra i tanti di queste avventure vissute dentro i muri della fascinazione infantile, mi sono rimasti impressi nella mente.
Uno dal sapore "mitologico". L'altro dai contorni burleschi.
Talvolta mi succede di ritrovare nei meandri della memoria lontanissimi fatti che, ricoperti dalla bruma del tempo fanciullesco, sono come condensati nella dimensione del "mito". Nel senso che si sono spogliati di ogni pretesa di verosimiglianza, rimanendo vestiti solo del manto dello stupore.
Fra questi va sicuramente ricondotto il primo frammento di memoria legato alle incursioni nelle case in costruzione. Quella volta eravamo in una casa piuttosto grande per il modulo edile medio locale. Tre piani, mi pare fossero.
Fra i "capi spirituali" leader della scorribanda, c'era una ragazzina di tre o quattro anni più grande di me. Di per sé, questa era una creatura dall'aura fatale, per noi sbarbatelli piccolini.
Da tempo in odore di eroica "maschiaccità", era una mezza leggenda della nostra infanzia, già protagonista di non meglio precisate narrazioni di passate monellerie di altissimo pregio.
Quello che compì quel giorno tuttavia superò ogni magia gestuale del repertorio del perfetto scavezzacollo in erba.
Non ricordo se fosse ancora una volta il fatidico allarme ad innescare il diapason della tensione, «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!»...fatto sta che nel giro di pochi secondi tutta la banda si ritrovò in posizione utile per la dignitosa battuta in ritirata. Tutti tranne "lei", la Pippi Calzelunghe dei nostri lontani giorni di "anarco-bimbetti", che con la sua consueta audacia si era spinta alle quote alte dell'edificio accessibili solo agli impavidi puri. E qui s'innesta la parte propriamente mitico-infantile, per cui sospendete pure per un momento l'incredulità, che in questi casi si fa superflua.
Vi potrei giurare infatti, anche se non fosse vero, che io la vidi "volare": dal primo o dal secondo piano, non saprei dire. So solo che l'ideale femminino della mia selvaggità bambina quel giorno prese il volo, lanciandosi nel vuoto da un terrazzo incompleto, fendendo l'aria con un urlo da vero bucaniere del Pernambuco, con le sue lunghe gambe nude che nuotavano nel vento ed i neri e fluenti riccioli schiumosi a sostenere l'abbraccio della planata.
Ricadde perfetta, scultorea ed in piedi, sana e salva come una statua della Grecia classica, coi piedi conficcati alla caviglia, sulla sommità di una soffice montagnola di sabbia fine, che era stata sin dall'inizio l'obiettivo del suo balzo mitologico.
L'altro episodio dai contorni buffoneschi, vide protagonista invece un altro amico che potrei definire storicamente un "farfallone" nei confronti degli aspetti "tecnici" della vita.
Il galateo del mini-pirata edile esigeva che spesso la casa in costruzione dovesse essere arrembata a piedi nudi.
Con la perfidia tipica dell'età acerba, ci divertimmo a rubare le stringhe dalle scarpe di questo amico bonaccione, da lui lasciate improvvidamente incustodite all'ingresso.
Lo scherzo si potrasse per lunghe estenuanti ore, al di là di ogni considerazione per l'umana pietà. Ma una sorta di bizzarra nemesi era pronta a calare sugli incauti "burlatori".
Alla fine la responsabilità della canzonatura aveva snervato gli stessi autori della beffa, non scevri da qualche filino di senso di colpa.
Mal ce ne incolse, una volta restituiti i dovuti "due" laccetti all'amico tontolone.
Perchè tutto quello era stato niente, al confronto della rullatura di maroni che dovemmo poi sorbirci fino all'imbrunire dal beffato medesimo, che sosteneva, insisteva e persisteva nella sua inconfutabile tesi, secondo la quale in ogni scarpa sono presenti normalmente due stringhe, totale quattro per paio, ragion per cui gliene dovevamo ancora due. Il suo fare avvocatizio bislacco ci perseguitò fin sulla soglia di casa, facendo barcollare il nostro equilibrio mentale stesso.
La sua proterva ottusità ci aveva alla fine storditi, facendoci ormai quasi dubitare del postulato di Ceneretola, che recita: per le asole di una scarpa passa uno ed un solo laccetto.
Anche qui non ricordo bene, ma mi pare che alla fine, per uscire vivi dalla sbilenca arringa itinerante, dovemmo far perdere le nostre tracce con qualche giro vizioso per le viuzze più contorte del paese, per seminare il molesto avvocato, gran segugio dell'assurdo.