giovedì 31 dicembre 2009

Discorso ai gillipixiani


Cari amici viandanti per pensieri, anche stavolta è giunto il momento del mio discorso ai gillipixiani.
In qualità di presidente di Gillipixiland, uno Stato che mai non è stato ma sempre sarà, mi sento in dovere di fare il ciuffo con qualche vaccata di fine anno alla valanga di spropositi con la quale vi ho investito durante questo 2009.
Facendo dell'estetica numerologica a basso costo, avevo riflettuto a suo tempo su quella zampetta posta sotto il numerino terminale dell'anno che stiamo per salutare.
Il "9" di coda, con quel suo piedino, che dai più maliziosi poteva anche essere visto come altra propaggine anatomica dalle ben più minacciose implicazioni, metteva quasi in guardia nei confronti di eventuali sgambetti, o nel peggiore dei casi, avvertiva che sarebbe stata cosa fortemente rischiosa, abbassarsi a raccogliere la saponetta nel corso dei 365 giorni ai quali stiamo dando il commiato oggi.
Col senno di poi, debbo dire che per me il pronostico non si è poi rivelato così fuori dal mondo: un paio d'entrate a gamba tesa il 2009 me le ha riservate, e per essere franco fino in fondo, ha pure cercato di farmi posizionare in alcune occasioni sulla "novantiera" (non posso spiegare bene nei dettagli che cosa sia, perchè non ho attivato il filtro "adults only", ma penso si immagini bene ugualmente...).
Ora, questo 2010, numerillicamente parlando, mi pare si presenti con un musetto più simpatico. Ha una sua simmetria paciosa e rotondetta, che fa pensare a faccende intime e familiari. Voglio esagerare, ed aggiungo che si profila quasi con fattezze da anno materno e femmineo, grazie alla gradevole matrioskalità del 10 che si attaglia con giustezza formale dentro l'accogliente capienza del 20.
Potrebbe dunque essere un anno fecondo di bellezza, questo che ci si para innanzi: starà un po' anche a noi tuttavia saperla scovare laddove essa si nasconde, magari in luoghi impensati ai più, ma sempre alla porata del viandante per pensieri che sappia lasciarsi cogliere dallo sprovveduto candore della propria fantasia.

Ora vi saluto, care amiche ed egregi amici, lasciandovi con un caloroso a risentirci presto e augurandovi un anno ricco di tante mirabolanti forzature di concetti: fate all'amore ogni qual volta ed ogni qual quando avete occasione, con una donna, con un uomo oppure anche da soli.
Con i più cari auguri anche da parte del mio sasso perfetto al 100%.



lunedì 28 dicembre 2009

Vademecum del pigro sereno


Questo periodo di festività, più o meno accompagnato da giornate di ferie aggiuntive, può trasformarsi, volendo, nell'habitat naturale del pigro professionale.
Si fa presto a dire "pigro" però.
Uno non immagina le insidie che, durante siffatti momenti dell'anno, gravano sull'onesto fannullone ben deciso a godersi i suoi stra-meritati momenti di "beata-mazzismo" libero e disinteressato.
Una delle minacce più perniciose per il pigro si nasconde dietro ai sensi di colpa.
L'aspirante scansafatiche deve infatti fare i conti con la pletora di pan-attivismo diffuso per il mondo. Tale disposizione mentale efficentistico-produttivista impregna l'atmosfera di questi nostri tempi in maniera così marcata da dare quasi l'illusione di esistere da sempre, di essere quasi un elemento connaturato alla realtà.
Ma non è stato sempre così. Ci furono epoche in cui l'uomo non viveva per lavorare, semmai il contrario. Anche se va precisato che ad addentrarsi troppo fra i miti della vagheggiata Età dell'Oro si finisce per far compagnia, accovacciati fianco a fianco, a coloro che vivono sperando.

Sta di fatto che il senso di colpa cagionato dal non far nulla, del tutto distolti dal coro degli iper-operanti, è uno dei nemici più ostinati dei pigri.
In letteratura sono noti casi di fior fior di pigri, con tanto di laurea in Oziologia conseguita "Maxima Cum Fiacca" alla "FanKazz University" di Lazyville, che avendo trascurato di approfondire le sfumature del fondamentale testo "Storia dei sensi di colpa: da Adamo a Clemente Mastella", si sono ritrovati a vestire i panni di amministratore delegato della "Slave and Frustrating Brothers", rinunciando per il rimorso a sabati, domeniche, ferie e feste in generale, vita natural durante .
Come difendersi allora?
Quel che serve è una piccola rivoluzione copernicana: bisogna ribaltare il punto di vista sulla questione.
Se stando a casa in ferie a praticar la vostra immacolata minchia di nulla, un sentore coscienziale di sottofondo vi rode l'anima, inducendovi a rammentare (quasi a respirare nell'aria) il gran lavorio efficentistico che permea l'antroposfera tutt'intorno al globo terracqueo, provate a vedere la cosa da questa angolazione: ben rintanati in casa, muovendovi il meno possibile, contribuite a tener basso il livello di entropia universale.
In fisica mi sono sempre barcamenato male, stazionando spesso sulla soglia che separa il cinque dal sei, ma se non bestializzo troppo, mi pare di ricordare che per il secondo principio della termodinamica, ogni volta che c'è una trasformazione di materia da uno stato ad un altro, con relativo impiego delle forze necessarie, il saldo finale di energia risultante fa marcare un ammanco, un deficit.
Questo debito d'energia, raccontato proprio in linguaggio para-scientific-cagnoso, è l'entropia.

Da casa, pigri, non produrrete trasformazioni di sorta e dunque nemmeno entropia. Per quel giorno non si formeranno merci provocate da voi. Non causerete neanche scartoffie o burocrazia, alle quali si accompagna una delle forme più moleste di entropia conosciuta. Non si vuoterà la vostra porzione di serbatoio quotidiana, e se usate i mezzi pubblici, è vero che avranno transitato ugualmente, ma privati del vostro peso, anche pur per una minima parte, avranno consumato meno risorse.
Ma soprattutto, non causerete "entropia socio-emozionale".
Non sprecherete fiato e neuroni in discorsi di circostanza di cui non vi potrebbe fregare di meno, magari anche fatti con persone di cui vi può fregare solo leggermente di più.
Non farete sfumare via forze socializzanti, stritolandole nei formali rapporti lavorativi, nei contorti quanto dispendiosi ingranaggi gerarchici capo-dipendente, impiegato-collega, padrone-sottoposto, and so on.
Non cadrete nella rete di perigliosi quanto vani colpi di fulmine o innamoramenti pluri-platonici, lasciando sospeso a turbinare nell'aria un quantum d'incombusta vis erotica, pronta per essere colta e bruciata più proficuamente dall'altrui passione, oppure dalla vostra stessa, in un giorno futuro più proficuo.

Ecco allora che il pigro, complice una piccola giravolta di prospettiva, dal patir sensi di colpa, si ritrova di colpo a goder sensi d'orgoglio.
Da mancato contributore dell'incremento del "patrimonio oggettivo" comune, con la sua giornata di lavoro non vissuta, ecco il pigro tramutarsi in dispensatore di energia fisica e spirituale, scampata, grazie alle sue proficue ore d'ozio, dal misero scivolamento lungo lo scarico agevolato dallo sciacquone entropico. Ecco il pigro divenir benefattore che elargisce il suo piccolo tesoro di energia non bruciata e lasciata circolare indenne per il mondo, a disposizione degli altri.

Dunque, egregio lettore, la prossima volta che incapperai in un pigro, non biasimarlo: ricorda che se quel giorno la tua stupenda storia d'amore potè aver inizio, lo devi un po' anche a lui, che standosene a casa a far nulla, evitò di andarla a sprecare al vento, in attesa di più fortunate predisposizioni entropiche.




domenica 27 dicembre 2009

venerdì 25 dicembre 2009

Finding my religion


Il significato che la Bibbia riveste per coloro che credono, non c'è bisogno che ve lo venga a raccontare un sottoscritto gillipixante qualsiasi e qui presente.

Le mie competenze si rivelano deficitarie, e bislacche anzichè no, già per quel che concerne il capitolo dell'al di qua. Figurarsi se mi permetto di andare a discettare sull'al di là. Ho il massimo rispetto per la religiosità di chicchessia, purchè si tratti di religiosità a sua volta rispettosa dell'altrui libertà di pensarla, anche di pensare superflua ogni religiosità.
E già qui ci sarebbe da ingabolarsi in una disputa spinosa, perchè se c'è un tratto che accomuna le religioni in qualche modo "istituzionalizzate" è proprio la loro tendenza a voler convertire chi ancora non crede, una sorta di esclusivismo del credo proprio.
Ma come dicevo, non è mia intenzione addentrarmi in siffatte sottigliezze teologico-dottrinali.

Una mia religiosità credo di averla pure io. Come ogni cosa che mi riguardi, anch'essa è un guazzabuglio che si fa prima a rinunciare a capirci qualcosa.
La mia religiosità io la vedo come un mosaico spiritual-culturale continuamente in itinere, un quadro mai finito, al quale aggiungere chiazze di colore ogni giorno che passa. La mia religiosità non consiste nella pretesa di un prodotto acquisito, bensì in una ricerca sempre rinnovata.
La mia religiosità è fatta (o perlomeno "cerca" di essere fatta) di quotidiana costruzione di stupore, verso le persone, verso gli esseri in genere, verso l'essere globale e le cose tutte.

Però qui si divaga.
Dicevo della Bibbia.
Per acclarata incompetenza mia, lascio da parte dunque il fatto che si tratti soprattutto di un libro di fede. Fatto ciò, ci rimane in mano sempre un libro bellissimo. La "God's Inc. Press & Supernatural Facts" è una casa editrice che si è sempre servita di autori coi fiocchi. Se non fosse una battutaccia, mi scapparebbe quasi detto che se non era gente che scriveva "da Dio", non ne voleva nemmeno sentire parlare.
Così capita spesso, prendendo in mano la Bibbia, di incappare in brani che sono una vera beatitudine per il proprio senso estetico. Ripeto: al di là del fatto di fede. Parlo di un punto di vista meramente letterario, culturale, che sfocia inevitabilmente nell'artistico-filosofico.
Sono perfezione fatta linguaggio, questi passi. Ci donano la conferma di quanto "parola" e "uomo" siano due entità simbiotiche ed operanti in vicendevole legittimazione: la parola "crea" l'umanità non meno di quanto gli esseri umani creino parole.
Ma qui è tempo di tacermi. Qui è tempo di lasciar voce alla bellezza:

«In principio era il Verbo,
e il Verbo era presso Dio
e il Verbo era Dio.
Egli era in principio presso Dio.
Tutte le cose sono state fatte per mezzo di lui,
e senza di lui niente è stato fatto di tutto ciò che esiste.
In lui era la vita
e la vita era la luce degli uomini;
la luce splende nelle tenebre,
ma le tenebre non l'hanno accolta.
Venne un uomo mandato da Dio
e il suo nome era Giovanni.
Egli venne come testimone
per rendere testimonianza alla luce,
perché tutti credessero per mezzo di lui.
Egli non era la luce,
ma doveva render testimonianza alla luce.
Veniva nel mondo
la luce vera,
quella che illumina ogni uomo.
Egli era nel mondo,
e il mondo fu fatto per mezzo di lui,
eppure il mondo non lo riconobbe.
Venne fra la sua gente,
ma i suoi non l'hanno accolto.
A quanti però l'hanno accolto,
ha dato potere di diventare figli di Dio:
a quelli che credono nel suo nome,
i quali non da sangue,
né da volere di carne,
né da volere di uomo,
ma da Dio sono stati generati.
E il Verbo si fece carne
e venne ad abitare in mezzo a noi;
e noi vedemmo la sua gloria,
gloria come di unigenito dal Padre,
pieno di grazia e di verità.
Giovanni gli rende testimonianza
e grida: "Ecco l'uomo di cui io dissi:
Colui che viene dopo di me
mi è passato avanti,
perché era prima di me".
Dalla sua pienezza
noi tutti abbiamo ricevuto
e grazia su grazia.
Perché la legge fu data per mezzo di Mosè,
la grazia e la verità vennero per mezzo di Gesù Cristo.
Dio nessuno l'ha mai visto:
proprio il Figlio unigenito,
che è nel seno del Padre,
lui lo ha rivelato».

Vangelo secondo Giovanni - Prologo



- Micheal Stipe -
l'unico essere umano di sesso maschile
che avrei anche potuto sposare :-)


giovedì 24 dicembre 2009

Una specie di auguri

Cari amici blogger e non; lettori o semplici avventori dell’osteria “Andarperpensieri”; commentatori appassionati ed osservatori sbigottiti tutti….come si sa, non sono molto pratico degli aspetti cerimoniali della vita: faccende quali socializzazione, relazioni pubbliche ed ammennicoli similari, le mastico proprio poco…
Ho anche spesso ribadito che tutto questo augurarsi di su, buon-natalarsi di giù, felice-anno-nuovarsi di là, lo trovo sempre piuttosto vacuo, simil-surreale e svagatamente “scroto-costrittore” (parafrasando il buon Yossarian, non m’invento un “caxxo rubro”: questo neologismo è presente niente meno che nell’«Ulisse» di Joyce: “…Il mare scrotocostrittore. Epi oinopa ponton. Ah, Dedalus, i Greci. Ti devo erudire. Li devi leggere nell’originale. Thalatta! Thalatta!...”).

Ma c’è un ma. Ed è che non solo mi sono affezionato a voi, ma ne vado proprio fiero. Mi piace da matti questa storia, anche se è del tutto virtuale.
Controllare ogni giorno l’elenchetto blogrollante delle vostre sfavillanti riviste digitali, per vedere se ci sono novità, nutrirmi delle vostre idee, gustare la vostra compagnia narrativa, sono divenute per me in questo annetto e mezzo piacevolissime abitudini.
Per non parlare di quando vi va di lasciare un commento; della smania scribacchiatoria che mi piglia le volte che mi pare di aver avuto un’idea degna di essere condivisa con voi; della goduria gustata mettendo per iscritto tutte le follie più strambe che mi passano per la capa.

- INTERVALLO -
Natale a Gillipixiland

Così, vai per pensiero che ti rivado per concetto, alla fine mi è venuta in mente questa lungimirante conclusione: farsi gli auguri per le feste è attività che va svolta a mente assolutamente sgombra. Va fatto senza chiedersi una minchia di perché, né una cippa di per come. Lo si fa e basta, senza pensare a nulla. E’ un po’ come mangiare o bere, baciare o fare l’amore, respirare o scor…ehm, scorgere il primo raggio di sole sotto la frangia dell’aurora...
Insomma, per fare gli auguri di Natale, bisogna mettere da parte la testa e lasciar fare tutto il lavoro a polmoni, cuore e pancia.
E così, ecco qua, amici: Buon Natale a tutti, mangiate il giusto, bevete il giusto, ma soprattutto amate il giusto (per i maschietti, meglio “la giusta”, via…), perché ricordatevi sempre, come diceva il buon Sir Paul Macca De Li Meccarty: «…and in the end, the love you take is equal to the love you make…».



martedì 22 dicembre 2009

Nasdrovie, tovarish Silvestrozky!


Anche se all’epoca della mia fanciullezza la questione non mi sarebbe mai passata per la testa, avrei forse dovuto capire fin da allora che il muro di Berlino era destinato a cadere, solamente facendo un confronto fra i cartoni animati occidentali e quelli di oltrecortina.
Giustifica
Il marxismo ha estrapolato tante teorie affascinanti, che sono andate a rimpinguare degnamente la cornucopia dello scibile umano. Tuttavia era ignaro di essere atteso al varco da una buffa nemesi ludico-storica.
Pur avendo posto le basi teoriche anche di un tema così spettacolare come il concetto di “cultura materiale”, le suggestioni esistenziali scaturite dal pensiero del barbone di Treviri non sono mai riuscite a tenere in conto che quando un gatto “di cartone” insegue un topo a sé consustanziale, e si schianta intorno al buchetto della tana “salva-roditore”, le conseguenze tangibili che anche “filmicamente” ne derivano, debbono seguire leggi ben precise.
“Quelle” leggi, e non altre possibili.
Tali “leggi” nei cartoni americani le puoi “degustare” a tutti gli effetti, come se fossero state succhiate direttamente dalla vita più viva. I vecchi cartoni dell’est possedevano invece una presa sulla realtà pari a quella espressa nel dormiveglia da un idealista alticcio e un po’ svanito.
Ci sono certi passaggi, certi dettagli, certe sfumature negli episodi di Silvestro, Bugs Bunny, Will Coyote o Tom & Jerry, che rivelano una sensibilità verso il reale talmente fine da poter essere equiparata, absit iniura verbis, agli affondi nella femminea ciccia marmorea praticati dalle affusolate dita di un Apollo plasmato dal Bernini o di un Amore del Canova.
Il grande discrimine storico-ideologico-filosofico fra i due mondi separati dal Muro, mi piace insomma riassumerlo tutto in questa bislacca sintesi cartoonesca a priori.

Il “blocco occidentale”, sulla base di una secolare stratificazione empirica, “sapeva” che sbattendo il muso contro il Muro, ci si fa male. Il “blocco orientale” partiva invece già con la pretesa di andare a sbattere contro il Muro, teorizzando tuttavia che non ci si sarebbe fatti male, e persistendo nella propria convinzione anche dopo il cozzo, giurando e spergiurando che i 10 punti sul labbro inferiore e l’osso del naso rotto erano solo un momentaneo incidente di percorso in cui era incappata la realtà, non il proprio grugno.

Il successo che continuano a riscuotere anche a tutt’oggi i cartoon americani è la prova provata di tutto il mio impianto dimostrativo sproloquiale.
Topini-cuochi (Ratatouille), umanizzate scatolette-robot di latta (Wall-E), automobiline antropomorfizzate (Cars), insetti-persona di ogni genere, grado e personalità (Bee movie, A bugs life): la fantasia dei cartoonist USA non conosce limite, non si ferma di fronte a nessun soggetto, riuscendo a far germogliare empatia a bizzeffe da qualsiasi simulacro del reale animato o inanimato, infondendogli una rispondenza alla concretezza del vivere che non può fare a meno di suscitare le forme di stupore più partecipate da parte dello spettatore.
Parlo del saper cogliere la purezza più pura di un sorriso o di una qualsivoglia espressione del viso, oppure del saper rendere certe movenze o dettagli della quotidianità con efficacia plastica talmente lampante, in quanto rintracciabile da parte di ognuno nella propria esperienza diretta di ogni attimo di tempo vissuto, di ogni cm. di spazio misurato.
Sarà stato anche per questo che alcuni cartoni del “vecchio est”, con quel loro ipnotico e bigio fascino “bizantino-sovietizzante”, potevano essere amati solo da bimbetti flautatamente malinconici e sognatori in solitaria, come me. Di personaggi ne ricordo solo due, in particolare. Ma vi assicuro che come “densità mnemonica” bastano e avanzano.
Uno è “La Talpa”, o “Krtek”, che per ironia di una sorte “spara-freddure”, nemmeno a farlo apposta, era un cartone animato Ceco. L’altro è il leggendario Gustavo, superba produzione degli ungheresi «Pannonia Films Studios».
Focalizzo l’attenzione sull’ineffabile Gustav, perché è la vera e propria icona della guerra fredda cartoonesca versione “al di là del muro”. Date un’occhiata (se ve la sentite!!!) all’episodio che vi riporto qui sotto, e forse riuscirò meglio a spiegarmi:



Gustavo, quando tocca le cose, quando si muove, quando guida la sua macchinina di regime standardizzata, quando usa ogni utensile utile alle più piccole cosette quotidiane, non fa nulla di tutto questo con “connotazioni empiriche”. Gustavo tocca le cose burocraticamente, si muove burocraticamente, affronta la quotidianità burocraticamente, respira, gesticola e bofonchia burocraticamente.
Mentre alle spalle di Silvestro, Titti, Braccobaldo, Ernesto Sparalesto & Co. si assapora la lunga ombra della potenza di Walt Whitman, la scaltrezza esistenziale di Mark Twain, l’asciuttezza espressiva di Hemingway, dietro Gustavo si profila per intero la “rivoluzionarietà” poetica di Vladimir Vladimirovic Majakovskij, spunta tutta l’utopica “castell-in-arietà” delle “sculture architettoniche” costruttiviste di Tatlin o dei dipinti di Malevic, fa capolino addirittura l’eresia dissimulata di un Kafka grande “scopritore” dei risvolti onirico-burocratico-grotteschi dell’esperienza umana affondata in questa valle di paradossi.

Da una parte, dunque, la mia ammirazione estetica è sempre andata alla perfezione empirica dei personaggi americani. Però osservandoli un po’ con quello spirito riservato ai compagni di scuola primi della classe, bravi, geniali, per carità, ma anche un tantino stucchevoli nella loro “secchioneria”.
Per altri versi invece, il mio cuore ha battuto forte soprattutto per il candore nostalgico del “nuvoloso” Gustavo, con lo stesso senso di simpatia tenuto in serbo per l’amico un po’ bonaccione, sempre relegato al primo banco, quello a cui tutti rubavano la merendina e sparavano chicchi di riso sul “coppino” (trad.= nuca) durante l’ora di religione.
Insomma, cosa aggiungere ancora? Niente, salvo affidarmi alla saggezza visionaria del buon vecchio Jim che sempre ci rammentava: «…The west is the best…the west is the best...get here and we’ll do the rest!…».


domenica 20 dicembre 2009

A me stesso




Questa me la voglio proprio dedicare!

martedì 15 dicembre 2009

Se potessi avere 20 ore di volante al mese...

Foto-ammasso di Gillipixel

Ogni mattina, per spostarmi da Gillipixiland alla città, mi sciroppo mezz'ora di automobile. Più precisamente, 30 minuti a bordo della mia 313 GT.
Altra mezz'ora ovviamente mi ci vuole per fare rientro a Gillipixhome. Sessanta minuti al giorno, fanno cinque ore di auto a settimana lavorativa. Nel trentello canonico dei dì, sono 1200 minuti guidatorii, che è come dire 20 ore mensili.
Facendo poi un conticino generale, ci vuole poco a dedurre che la doppia decina oraria ad ogni spogliarello di luna, mi si tramuta nella bazzeccola di un bel dieci giorni all'anno trascorsi attaccato ad un volante (che sarebbe come dire: 20 h x 12 mesi = 240 h / 24 h = 10 gg).
A considerarla bene, la cosa mi ha fatto abbastanza impressione. Quanti istanti della mia vita buttati fra le verze, così, senza costrutto...
E pensare che quei momenti li potrei spendere a giocare coi miei figli...se avessi dei figli.
Pensare che potrei godere della compagnia di mia moglie, in quegli attimi...se avessi una moglie.
Quei minuti rubati, li dedicherei con molto più diletto alla mia fidanzata...se fossi findanzato.
Insomma, quegli istanti li potrei trascorre nel mio chalet in montagna...ad averne uno.
Invece del volante, durante quelle ore bruciate, potrei impugnare il mio ferro numero 1, per un perfetto drive capace di aprirmi un agevole percorso sino all'ultima buca...se sapessi giocare a golf e il club più vicino non fosse a mille miglia da Gillipixiland.
Potrei persino tenere un corso di filologia romanza, invece di buttare via il mio tempo in quella scatoletta di lamiera...se solo avessi una mezza idea di cosa minchia è la filologia romanza.

Va beh...per fortuna che a tenermi ancora un po' in contatto con il consorzio umano, c'è la 313 GT!





Don't worry a-bout a thing, 'cause ev-ry little thing gonna be all right.
Singing': "Don't worry about a thing, 'cause ev-ry little thing gonna be all right!"

Rise up this mornin'; smiled with the risin' sun.
Three little birds pitch by my doorstep
Singin' sweet songs of melodies pure and true; saying,
"This is my message to you-ou-ou.”

Singin': "Don't worry about a thing, ‘cause ev-ry little thing gonna be all right."
Sayin': "Don't worry about a thing, ‘cause ev-ry little thing gonna be all right!"

Rise up this mornin'; smiled with the risin' sun.
Three little birds pitch by my doorstep
Singin' sweet songs of melodies pure and true; sayin',
"This is my message to you-ou-ou."

Meanin': "Don't worry about a thing, worry about a thing,
oh! Ev-ry little thing gonna be all right.
Singin': "Don't worry about a thing" - I won't worry!
‘cause every little thing gonna be all right."

Meanin': "Don't worry about a thing, ‘cause every little thing
gonna be all right" - I won't worry!
"Don't worry about a thing, ‘cause ev-ry little thing ‘sgonna be all right."

(Baby) Don’t worry about a thing,
'cause ev’ry little thing gonna be all right.

venerdì 11 dicembre 2009

Il dottor Stranospammo


Qualche tempo fa vi avevo parlato dello spamming come discreta fonte per divertirsi con poco. E' vero che non sempre la “messaggistica selvatica” offre spunti degni di nota, ma se si ha un po’ di pazienza, prima o poi una discreta chicca la si pesca.

Una cosa buffa l'ho notata.
Lo spirito che contraddistingue il criterio di reclutamento del pollo medio da spammare è concettualmente improntato alla più verace atmosfera da osterie stile “Gigi er trojone”, “Dagli incivili”, “La parolaccia” o simili.
L’unica variante è che invece di accoglierti con un pittoresco “eh benvenuti a ‘sti frocioni”, lo spammaro dà praticamente per scontate le peggiori condizioni esistenziali immaginabili per te. Come minimo sei un morto di fame dal candore piuttosto marcato, per lo spammaro. Infatti ti offre fantastici lavori con guadagni da sogno, stando comodamente seduto a casa ad infilare perline per collane facilmente piazzabili sui mercati delle isole della Gonzonesia.
Per lo spammaro, come minimo, mangi pane e sfiga a colazione, pranzo e cena.
Infatti sta sempre lì a preoccuparsi della tua situazione sentimentale, proponendoti stuoli di ragazze d'oro, tutte rigorosamente bionde, occhi azzurri, 1 e 80 per 90-60-90, che non vedono l'ora di maritarsi con te, correre a casa tua a lavar piatti e stirare camice, facendo la calza davanti al camino e la sfoglia per i tortellini tutto il resto del tempo che non si passa a scopare...il pavimento insieme.

Ma quello che proprio allo spammaro fa piangere il cuore come un tralcio di vite tagliato, è saperti "tiroleso". No, non mi riferisco a particolari specificazioni geografiche. Tirolo e dintorni altoatesini non c'entrano nulla. "Eso" ho scritto, "eso", non "ese".
Che poi "tiroleso" non sarebbe nemmeno il termine più preciso. Meglio dire che lo spammaro si duole fortemente se ti sa "ipo-tirante", se gli giunge leggenda del fatto che non raggiungi col fulgore necessario la soglia minima sindacale della possanza virile.
Lui ci sta proprio male.
Alla ferale notizia, ecco allora lo spammaro che si fa in quattro con generosissime proposte di spammarti tutto col suo "iper-tirante" unguento magico a prezzo modico. Lo spammaro non vive per il vile guadagno. Se ti propone le sue offerte, è solamente per recuperare un minimo di regolarità nel sonno. Infatti non ci dorme la notte, pensando a te e ai tuoi piccoli o grandi problemi idraulici.
Lo spammaro si attiva con il solo scopo di restituire a te e alla tua donna la felicità dalla quale siete stati momentaneamente deviati, causa il pernicioso influsso del logorio della vita moderna (...ssshhhttt! Nessuno si azzardi a tirare fuori doppi sensi a base di carciofoni e simili!).

Sentite dunque con quale fremebondo coinvolgimento mi ha scritto oggi il mio spammaro di fiducia...sentite come si preoccupa per me:

***

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Le opinioni dei nostri clienti:


- Il sesso porta piu soddisfacimento. Lo stress e la tensione sono spariti. Lei non si rattrista più, ora io non temo, che saro costretto a negare. E' una sensazione fisica sbalorditiva, dopo la quale segue lo stesso sentimento profondo.
- La cosa migliore del Vi è la sicurezza della possibilità di «volare con autopilota», rilassandosi e senza la necessità dell’entrare nel merito di quel fatto, che il pene continua a trovarsi in posizione verticale, anche quando tu sei interrotto (i figli battano alla porta della camera da letto, il cane abbaia, il preservativo scivola). Quando prendi coscienza del Vi, questo puo anche stare un grande regalo per la compagna. C’e solo un consiglio: non le dica, che lei prende il Vi: l’apprezzamento di se' stesso femminile è anche molto suscettibile.

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***

Oh, come sei caro, solerte spammaro! Subito in apertura, già mi rassicuri: insieme a te, affidati alle tue mani premurose, si è sempre in "regime di online"...sia ringraziato il cielo!!!
E quali sentori di saggezza senza tempo promanano dalle sfavillanti parole dei clienti da te già spammati con enorme loro soddisfazione.

"...Lei non si rattrista più, ora io non temo, che sarò costretto a negare...".
Oh qual tenero istinto innato, quale sensibilità...anche se non mi è ben chiaro quale sia il fatto da negare: già lo sapevano anche i latini che "excusatio ripetuta, non tiratio manifesta...".
Va beh, ma non sottilizziamo ed immergiamoci senza soluzione di continuità in questo rutilante fuoco di fila di testimonianze sull'armonia di coppia riconquistata.
Lo spammaro ti offre niente meno che la "...possibilità di «volare con autopilota», rilassandosi e senza la necessità dell’entrare nel merito di quel fatto...".
Qui ti superi, spammaro sublime: vestendo i nobili panni del novello lord Chesterfield, con estremo altruismo ci ricordi che a far "quella cosa là", «la posizione è ridicola, il piacere effimero, la fatica tanta». Chi di meglio ci potrà dunque venire in aiuto se non il "pilota-chiavatore -automatico"?
Viene da chiedersi: ma alla fine chi sarà a godere? Ma cosa importa? Fidati dello spammaro: lui ti garantisce niente fatica...e lascia che si sbatta quel fesso del pilota!

Solo due piccoli appunti mi sento di farti, amico spammaro. Come dire, un paio di dubbi che mi sono venuti.
Il primo è questo: se "...l’apprezzamento di se' stesso femminile è anche molto suscettibile", non credi che sia similmente suscettibile "l'apprezzamento del se' stesso grammaticale"?
La seconda ed ultima perplessità è più sottile ma non meno fondamentale. Ho ammirato fino in fondo la tua squisita cortesia, spammaro caro. Mi hai persino illustrato le più svariate casistiche di distrazione che tutto bello spammato col tuo unguento riuscirò a superare molto brillantemente.
Non so tuttavia se ti è venuto il dubbio, ma metti che il cane stia abbaiando per scendere a fare pipì nel vialetto sotto casa, ma che minchia di figura ci faccio io coi vicini scesi per il medesimo motivo, se mi paro loro innanzi con quell'affare che continua a "...trovarsi in posizione verticale...?".




mercoledì 9 dicembre 2009

Learning to lose

Lo storico originario "fotogramma" in cui il personaggio di Alan Ford fece la sua prima apparizione, sul numero 1 della serie, intitolato "Il gruppo T.N.T." e datato maggio 1969

I fumetti sono faccenda pop, dunque piuttosto leggera, in teoria. Ma possono segnarti non poco.
Soprattutto se si considera che l’animo dei bambini è forse la creta spirituale più plasmabile che si possa immaginare, e che i medesimi sono (o perlomeno “erano” durante la mia fanciullezza) i più assidui divoratori di giornalini.
Mettendo in fila queste considerazioni, qualcosa che mi riguarda ne viene fuori. Il mio affetto storico maggiormente consolidato per i fumosi eroi è stato quello riservato a Tex Willer. Ma all’inflessibile Ranger del Texas ho cominciato ad avvicinarmi con passione vera piuttosto tardi, sul finire delle Medie.
La mia infanzia fumettistica è invece stata stranamente segnata da una banda di personaggi che esigevano uno humor molto maturo per poter essere apprezzati appieno.
Parlo di Alan Ford e del gruppo TNT.
Per cercare di spiegare un po’ il mio rapporto con questo fumetto, devo chiedere di avvalermi dei metaforici servigi di un altro immenso “addetto ai lavori”. Vi dico infatti che non avrei mai potuto leggere Alan Ford così nel profondo, se non fossi stato Charlie Brown già un po’ di mio.
Da un punto di vista spirituale, non credo di essere mai stato in corrispondenza alcuna con la mia età anagrafica. Sono un improbabile adulto mal specificato oggigiorno, così come fui un bimbetto già abbastanza “grande” ai miei tempi, un piccolo sognatore serioso.
Non saprei dire di preciso se questo fatto venisse acuito dalla lettura di Alan Ford, oppure se ero attratto da fumetti simili in virtù della mia strana personalità asincronicamente conformata.
Dal gruppo TNT, oltre a divertirmi un mondo a leggerlo, ho imparato due principi basilari ed un corollario.
Primo: al mondo si perde assai più spesso di quanto non si vinca.
La seconda eredità “alanfordiana” è la simpatia che da allora ho sempre nutrito per gli sconfitti, fra le cui schiere mi sono anche spesso ritrovato. Mi pare che questo modo di confrontarsi con la vita fosse anche fra gli obiettivi di Karl Marx, non saprei dire con precisione. Posso dire però che Alan Ford e il gruppo TNT sono stati il mio Manifesto ed il mio Capitale messi insieme.
Sarò esagerato, ma mi sento di dire che spiegare Alan Ford a chi non lo ha mai letto non è compito semplice. Certo, si possono tratteggiare per sommi capi i caratteri dei personaggi e delle loro vicende, ma coglierne la “filosofia” è questione più sottile.
Alan Ford, Bob Rock, la Cariatide con la Squitty, Grunf, il conte Oliver, Cirano e il Numero Uno, erano agenti segreti sgangherati (parlo all’imperfetto perché mi riferisco al primo nucleo “classico” insuperato dei primi 75 numeri, disegnati dal grande Magnus, su sceneggiatura di Max Bunker). Le loro avventure erano spesso rocambolesche, surreali, grottesche, bizzarre, goffe, granguignolesche, nei casi più estremi. Ma tutti questi aggettivi non sfiorano nemmeno quella sensazione di malinconia poetica che pervadeva l’atmosfera del fumetto. Un misto di cinismo rassegnato di fronte alle prepotenze del destino, superabile solo con un’ironia ancor più caparbia e priva d’esitazioni.
E’ appunto questo il corollario di cui vi parlavo sopra: quando la vita si fa beffarda, gli ironici si mettono a sorridere, a sogghignare se è il caso (e se possono appena, beninteso…).
Molti anni prima di sentirne parlare diffusamente in Italia, la legge di Murphy la conobbi insomma attraverso le gesta di Alan Ford e soci. Ma da un punto di vista più complesso, conobbi anche le sottigliezze critiche del sarcasmo, l’onestà intellettuale che solo un senso dell’umorismo cristallino ed irreprensibile sa recare con sé.
E tutte queste considerazioni mi fanno concludere con una verità tanto evidente quanto spesso trascurata o misconosciuta: anche dalla fonte culturale più insospettabilmente umile, si possono talvolta trarre lezioni filosofiche importanti, se solo si è disposti a lasciarsi attraversare da una sensibilità pura ed aperta all’ascolto meno preconcetto possibile.


domenica 6 dicembre 2009

Unsure of what he'll find



E per non scordare le origini...

Un torrone frattale, il libro friabile e la povera apetta


In base a quale sua componente un libro può piacermi oppure no?

Potrà sembrare una questione oziosa.
E di fatto la è.
Ma mi è venuto da rifletterci questa mattina.
Pensavo: nonostante di libri fino ad ora io ne abbia letti un discreto numero, un criterio univoco per stabilire il mio gradimento di lettore non l'ho mai effettivamente fissato.
Il che è ancor più ozioso, volendo.
La cosa credo sia in parte dovuta al fatto che forse un criterio univoco è difficilissimo da stabilire, perchè troppe sono le componenti in gioco. E probabilmente, ogni volta che in questa sede "blogghereccia" ho scritto di libri o di tematiche a loro affini, è stato proprio questo che stavo facendo: aggiungevo un piccolo "tassello motivante" in più al mio variegato metro di giudizio letterario generale.

Quello che mi sembra di aver notato tuttavia, è che più la ricerca di queste motivazioni si fa approfondita, più ne sbucano fuori di nuove. Inoltre, la bizzarra caratteristica che ognuna di queste motivazioni sembra assumere è la seguente: prendendone ciascuna singolarmente, se ha un minimo ragionevole di costrutto, sembra essere sufficiente ed esaustiva; ma se nel contempo si ponderano anche tutte le altre motivazioni possibili in gioco, con una visione panoramica d'insieme dei criteri di giudizio letterario, pure queste fanno sentire la propria imprescindibile necessarietà.

Uhm...mi sono spiegato da cani, eh? Abbastanza, dai: potete dirmelo, non fate complimenti...

Cerco di buttarla allora su una similitudine suggestiva: la "base critica" su cui si può fondare il gradimento del lettore, a mio avviso, ha una struttura che può essere metaforicamente assimilata al concetto matematico di frattale. O meglio, ad un aspetto della teoria dei frattali, così come mi sembra di averlo capito (e qui, se necessario, chiamo in causa la cara Farly, mia metà di chimera grande esperta in matematica, che prego redarguirmi su eventuali cagat...ehm... infondatezze contenutistiche).
Il punto sarebbe dunque questo: ciascuna parte di motivazione del gradimento di lettore (anche minima, purchè, ripeto, dotata di ragionevole costrutto) riflette l'importanza del tutto della motivazione, e viceversa.
In altre parole: osservando il criterio generalissimo che mi fa apprezzare un libro, ed osservandone una sua sottocomponente anche molto limitata, ci si rende conto di essere di fronte ad una medesima struttura similare, proprio come accade nei frattali.

Qui sorgeranno due rilievi critici da parte dei pazienti lettori.
La prima è: ma che minchia hai detto?
La seconda è: ammesso che ci abbiamo capito qualcosa, come ce lo dimostri?

Ecco, se sulla prima obiezione non posso che essere con voi solidale, alla seconda non so proprio cosa ribattere. Mi appello semplicemente al sottotitolo del mio blogghetto confusionario: "Andarperpensieri - O dell'arte del forzar concetti".

Il fatto è che a tutta questa immensa contorsione mentale, sono arrivato in parte ripensando ad uno stupendo passo di uno dei libri che più ho adorato nella mia carriera di lettore: «Il giovane Holden» («The catcher in the rye») - J.D. Salinger.
Ecco il brano:

«...Quelli che mi lasciano proprio senza fiato sono i libri che quando li hai finiti di leggere e tutto quel che segue vorresti che l'autore fosse un tuo amico per la pelle e poterlo chiamare al telefono tutte le volte che ti gira...»

Lo riporto anche in lingua originale. La doppia lettura andrebbe fatta per tutti i testi, ma i limiti di conoscenza delle altre lingue sono spesso un ostacolo troppo arduo. Ebbene, nel caso del capolavoro di Salinger, il problema si attenua: anche un conoscitore blando dell'inglese come il sottoscritto ha potuto assaporarne appieno tutta la bellezza originaria. Per chi non lo ha già fatto, se decidesse di leggere questa opera meravigliosa, consiglio quindi di farlo nelle due lingue, anche perchè, tra le altre cose, la traduzione italiana curata da Adriana Motti è altrettanto preziosa e straordinaria.

Ecco il brano in inglese:

«...What really knocks me out is a a book that, when you're all done reading it, you wish the author that wrote it was a terrific friend of yours and you could call him up on the phone whenever you felt like it...»

Pensandoci su bene, insomma, mi sono reso conto che questa motivazione di gradimento letterario era al contempo minimale, ma vastissima, al pari della più complessa teoria elaborata dal più eminente professore universitario. Proprio come ho "caninamente" tentato di spiegarvi sopra con la mia similitudine frattale.
Prima però, ho anche ripetutamente detto che il quantum minimo di struttura del gradimento letterario da considerare deve possedere una dose sufficiente di costrutto. Ecco, cos'è che garantisce questa "dose sufficiente"?
Sempre forte dello stesso passo di «Il giovane Holden», vi rispondo così: la sua poeticità.

E se per sbaglio avete resistito a leggere fino a questo punto, pensando di trovarvi di fronte alle farneticazioni di un folle, vi avverto che quanto sopra detto è stato nulla rispetto a ciò che seguirà.
Sì perchè adesso entreranno in scena il mio frattale letterario, il torrone e la povera ape morta sul davanzale.

Il mio schema di "disegno frattale letterario" è presto detto: un libro mi piace quando ogni frase, oserei dire ogni parola, dà l'impressione di essere indispensabile alla narrazione. Si leggono a volte libri inframezzati da descrizioni gratuite ed accessorie, con le quali l'autore sembra quasi menare il can per l'aia, tanto per diluire il racconto.
Magari lo fa involontariamente (il che è forse ancor più grave), ma sta di fatto che quelle sono opere che non soddisfano la mia condizione frattale letteraria. Un libro, per piacermi, deve regalare la stessa impressione di necessarietà, sia nelle sue componenti minime, sia nel suo impianto generale.

Cosa c'entra però il torrone?
Il torrone, quello veramente realizzato con i crismi artistico-torroneschi perfetti, vi racconta lo stesso concetto: deve tenere la friabilità fino all'ultimo pezzettino minimale. Il torrone frattalemente e letterariamente ineccepibile è quel torrone che dal primo all'ultimo morso che precede l'inghiottimento finale, si mantiene significativamente ed irreprensibilmente "sbriciolabile".
Il torrone che invece sulle "ruminate" conclusive vi si para sotto al palato come una piccola mappazza ciccosa chewingum-meggiante, è equiparabile ad un testo pieno zeppo di descrizioni gratuite, accessorie e non consustanziali all'opera.

Va beh, ma cosa c'entra infine una povera piccola ape morta sul mio davanzale?
C'entra perchè anch'essa mi si è illuminata agli occhi come un minimo ma infinito frattale esistenziale. Osservandola lì, indifesa ma sempre elegantissima nella sua dignità "apesca" del tutto integra anche dopo la migrazione della piccola anima in chissà quali paradisi entomologici, mi è sembrata importante come la più vasta delle galassie dell'universo.
Ed ho pensato che tutto era a posto così, tutto quadrava: il torrone, i libri e la bellezza del mondo.

mercoledì 2 dicembre 2009

Svenà!!!


La dimensione linguistica popolare possiede una forza evocativa il più delle volte preclusa agli ambiti della lingua codificata ufficialmente. Ci sono certi termini dialettali che recano con sé una capacità straordinaria di produrre significati, praticamente a ciclo continuo, quasi rinnovandosi incessantemente attraverso l’utilizzo vivo che i “parlanti” ne fanno. Questi termini, più che parole in sé e per sé, sono una sorta di metafore permanenti o, nei casi più preziosi, quasi dei “dispositivi poetici”.
Ecco, sono partito bello intellettuale, ma niente panico: torno subito a sbadilar pensieri nei sobborghi della mente.
Sì, perché mi sono reso conto che non sarei riuscito a mantenere lo stesso livello dell’incipit, quando ho pensato che oltre all’enunciato teorico di questo tema, avrei dovuto produrre anche qualche esempio concreto.
Qui infatti si presenta subito un ostacolo.
Un eventuale esempio dialettale sarebbe apprezzabile fino in fondo solamente da persone le quali conoscano sufficientemente bene lo specifico dialetto in questione. Questo perché le sfumature più sottili, le accezioni più profonde chiamate in causa dietro la facciata verbale principale, rischierebbero di andare inevitabilmente perdute, una volta spiegate a chi è estraneo a quell’idioma.

Esiste tuttavia una parola che casca a fagiolo per non lasciar perdere tutto il discorso. La sua particolarità è che si tratta di una parola in italiano, ma nel “laboratorio semantico” che coi miei amici teniamo vivo ormai da diversi anni, ci siamo divertiti a farle assumere tonalità di significazione multicromatiche e popolaresche quali si possono rinvenire solo nei vocaboli di impronta puramente vernacolare (“laboratorio semantico” per dirla in forma leggendaria; calato nella cruda realtà, suona invece così: “manica di ubriaconi”).
E’ insomma una parola italiana che noi debosciati “Fedeli di Bacco” abbiamo provveduto a colorare di dialetto.
La parola in questione è: “svenato” (in dialetto: “svenà”). E fin qui, niente di particolare. Il vocabolo sul dizionario della lingua italiana c’è. O meglio, più facile trovare il verbo corrispettivo: “svenato” è il participio passato di “svenare”. Letteralmente, significa “dissanguare”; in senso più figurato, evoca invece scenari di svuotamento economico, perdite di pecunia.
Non mi risulta tuttavia che venga usato tanto spesso con valenze sostantivate. E’ da questo punto in poi che si innesta il macinio semantico messo in piedi coi miei amici.
Dopo essere passato più volte attraverso la “fucina verbale” dei miei amici e mia (sempre espressione leggendaria, anche qui da leggersi: “osteria lingusitica”) “svenato” è da noi ormai utilizzato in riferimento alla produzione creativa di un qualche artista, meglio se cantante o musicista.
Già qui c’è un primo, piccolo valore aggiunto portato dalla “sostantivazione” del verbo. «…Il tizio è uno svenato…la tale è una svenata…» equivale a dire, che ne so, «…Il tizio è un meccanico…la tale è una parrucchiera…». “Svenato” diviene quasi una “caratterizzazione esistenziale”.
Ma questo è solo un primo gradino di arricchimento verbale.
Il secondo livello ce lo abbiamo appiccicato per assonanza contenutistica con l’espressione “vena creativa” oppure “vena poetica”. L’artista svenato è dunque quel creativo che ha smarrito la vena artistica.

L’ulteriore passaggio però che impreziosisce definitivamente il vocabolo di sottili valenze fantasiose dialettali, merita una spiegazione precisa. In tal senso, “svenato” acquista nuove coloriture come opposto del verbo “invenare”, questo sì in puro vernacolo delle mie parti.
L’«invenatura» è operazione prettamente connessa alla pratica dell’imbottigliamento del vino con metodi più che artigianali.
Si prende la damigiana (di lambrusco, barbera, gutturnio o simili elisir vineschi…chianti o barolo, per gli eletti), e la si posiziona ad una quota sufficientemente alta da cagionare una lieve caduta per gravità.
Si procede poi ad immergere una canna travasante in bocca alla damigiana, ben a fondo. Mantenendo l’altra estremità libera della canna a quota più bassa del “pelo del vino” interno al panciuto contenitore, si sugge con forza fino a causare la caduta naturale del rubizzo stillare, che per il principio degli omonimi vasi, si mette in comunicazione con le bottiglie da riempire.
A questo punto, con terminologia strettamente “tecnica”, la canna dicesi “invenata”. Se per incuria o disattenzione, l’invenatore non aspira con la dovuta perizia e dell’aria rimane lungo il tragitto della canna ostacolando la fluidità dell’imbottigliamento, la medesima canna ritorna a cadere sotto la definizione “tecnica” di “svenata”. Similmente, quando il purpureo livello all’interno della damigiana cala fin quasi all’esaurimento, la canna, ormai impossibilitata al pescaggio, di nuovo, si “svena”.
Ora, non so se a questo punto è chiara la bellezza (sempre nell’ambito di un sano “divertirsi con poco”, ovviamente) di questa stratificazione dialettale.
Immaginate il cantante in difficoltà creativa assimilato per metafora ad una canna da imbottigliare tutta piena di maldestre bolle d’aria, impossibilitato a travasare il vino melodico dalla damigiana della sua ispirazione alla distesa melomaniaca di bottiglie rappresentata dal pubblico canzonettaro.
Detto in una sola parola: è “svenato”.
Vi dirò di più: in virtù di una gioiosa confusione di ruoli, in forza di una caleidoscopica inversione della parte per il tutto, del mezzo per il fine, adesso concedetevi pure di immaginare che il musicista in questione venga metaforizzato come l’imbottigliatore medesimo.
Canna alla bocca, ciuccia che ti riciuccio, strabuzza gli occhi che ti dilato le froge, ma niente: dalla damigiana non viene giù una nota di vino decente che sia una.
Sempre detto in una sola parola: il musicista è “svenato”.

Insomma, è proprio percorrendo questi bizzarri sentieri mentali che ci si rende conto ancor meglio di quanto la preziosità semantica del dialetto sia impagabile. L’italiano è una bellissima lingua, ma i nostri dialetti sono cinema, poesia, teatro, pittura e scultura fusi insieme.
Cosa aggiungere ancora, cari amici viandanti per pensieri?
“Invenate” per bene la canna e alla vostra salute!

martedì 1 dicembre 2009

Fiiiggghhhiuuuzzzuuu!!!


Ho già parlato in alcune altre occasioni del rapporto conflittuale che son uso intrattenere sia con la città, sia con l'automobile.
Giust'appunto oggi, mi trovavo ad uscire dal centro urbano, alla guida della ormai arcinota (va beh, si fa per dire...) 313 GT, la mia inutilitaria targata Gattopoli.
Solitamenente ho due opzioni per rincasare a Gillipixiland: o infilo alcune strade cittadine un po' più tradizionali ma solitamente alquanto trafficose, oppure mi immetto nella radiosa tangenziale, che in alcuni minuti mi accompagna fuori dalla cintura cittadina. Questa seconda alternativa è quella che scelgo più di frequente negli ultimi tempi ed è stato esattamente ciò che ho fatto anche oggi.

Faccio però appena in tempo a sgomitolarmi dentro il fatidico svincoletto tangentizio, che mi accorgo subito di qualcosa che non quadra. Rallentamento subitaneo, incodamento camionale, azzeramento cinetico: in quattro per quattro sedici valvole, ci si è ritrovati tutti procedenti a passo d'uomo.
Doveva esserci un cantiere stradale più avanti e osservando la scena lungo l'infilata del biscione stradale circum-urbano, ho appurato che ad occhio e croce la fila stava lievitando non male.
Niente paura, ho pensato: "mamma città" non ti abbandona mai, "mamma città" ti vuole bene ed ha in serbo ogni soluzione per nutrire il tuo fabbisogno automobilistico.
Infatti, nel giro di due minuti, ecco pronto un nuovo accogliente svincoletto, grazie al quale degomitolarsi dal morso tangenziale, divenuto nel frattempo alquanto stretto ed iper-gasolico.
Già mi gustavo la mia astuzia da cervo, percorrendo baldanzoso il neo-svincoletto liberata-tutti. Già mi beavo per essermi attaccato con sommo intuito strategico alla tetta provvidenziale di "mamma città". Ma non passano che poche altre centinaia di metri e sono di nuovo bloccato, stavolta sulla strada normale: una bella coda fresca fresca e lunga lunga pure qui, anche al di fuori dell'anello obbligato. Niente da fare: dall'abbraccio di "mamma città" oggi proprio sembrava non si potesse sgusciare via.

Ed è stato lì che mi ha colto la buffa e bizzarra epifania cinematografica.
La visione è stata fulminea ed illuminante: la città, col suo insistente abbraccio trafficato e fumoso, ha assunto immantinente le fattezze dalla mamma della Belva Umana, incubo del povero Fracchia, obbligato ad andarla a visitare forzatamente, sotto minaccia del suo sosia criminale.
«...Figgghiu, figgghiuzzu miu bbbeddduu!!!...» mi pareva di sentire in sottofondo, là, affettuosamente imbottigliato nel mio ingorgo preferito.
«Figgghiuzzu miu come sei bbbuono oggi!!! Tutto te lasci fare da mmmammma! Nun te ne andare cusì prestu...un'altra rotonduzza ancora, un altro incroceddu bellu intasatu te devi surbiri!!!».



venerdì 27 novembre 2009

Le case

Fotomontaggio di Gillipixel,
creato fondendo due foto scattate da Gillipixel...

(ogni tanto concedetemi di bullarmi un po' :-)
(ah...dimenticavo: e bici di Gillipixel :-)

Da bambini giocavamo nelle case in costruzione.
Non ho mai sentito dire che in altri paesi questo gioco venisse giocato. Oggi non succede più nemmeno qui. Quando mai costruiscono una casa nuova, adesso, nel mio paese?
Allora era l’epoca in cui farsi una casa non era considerato privilegio super-umano. L’opzione esistenziale “costruirsi una casa”, possedeva ancora sfumature pressoché naturali. Non dico che fosse come respirare, oppure come bere un bicchier d’acqua, ma poco ci mancava. Perlomeno, nell’acerba intuizione di un bambino per le cose della vita, sembrava funzionare così.
Non che ai tempi l’essere adulti fosse un gioco da bambini. Tuttavia, con un onesto impiego, facendo la formichina per una ventina d’anni, riuscivi a tirar su una dimora più che dignitosa. Quelle cravatte di canapa a diametro variabile, oggi così di moda col nome di mutui, quasi non si sapeva cosa fossero.

Ma all’epoca queste cose non le sapevo. Non era importante che le sapessi.
Gli alberi crescevano. I fiori crescevano. I bambini crescevano. E così anche le case.
Crescevano.
Questo era tutto quanto mi serviva sapere.
Non ricordo bene come venisse scelta una casa invece di un’altra, per la scorribanda del giorno. «Dacci oggi la nostra avventura quotidiana!», forse era questo il solo criterio, ma allora nemmeno questo era fra i miei pensieri. Solo col senno di adesso mi sorge il “sospetto” che fossero i più grandi a stabilire un piano d’azione.
Più che “in costruzione”, la casa doveva trovarsi in quella “terra di nessun muratore”, situata a metà fra la fase del compimento del tetto e la successiva predisposizione delle finiture (serramenti, intonaci, piastrelle, ecc.).
Era in quel limbo di sospensione edile che la fantasia dei piccoli pirati dell’immaginario poteva andare ad insinuarsi. In tutti gli altri passaggi dell’iter costruttivo, non sarebbe stato possibile: la presenza di qualche forma di molesto operaio, insensibile alla sana formazione infantile, sarebbe stata d’intralcio.
Inutile dire che si trattava di un gioco abusivo e che la spada di Damocle della ronda del muratore, faceva parte delle regole fondamentali per assaporare meglio la ricetta.
Un misto di pericolo e di senso della violazione di intimità domestiche potenziali. Doveva essere questo che ci attirava tanto fra quei muri grezzi. Una sorta di innocuo “Grande fratello” ante litteram, paradossalmente rispettoso della privacy, perché tutto basato su immaginate vicende familiari ancora ben lontane dall’essere vissute.
Entravamo di soppiatto, col cuore in gola. Una sensazione da ladri, verosimilmente. Con la differenza che noi andavamo a rubare solo fantasie, per altro fabbricate in proprio.
Non so se nella vita a seguire ho mai più provato una sensazione simile. Avere 7 o 8 anni ed essere padrone per qualche mezz’ora di una casa. Abitarla come mai nessuno in seguito avrebbe più potuto fare, nemmeno i legittimi proprietari. Perché l’arredamento noi lo potevamo disporre con la mente in mille forme mutevoli, le porte ancora inesistenti potevamo immaginarle scorrere con automatismi alla “Spazio 1999”; per noi le scabre scale cementate si coprivano di velluto rosso per dare accesso a sontuosi saloni principeschi, mentre da una balconata ancora grezza si poteva dominare la sconsiderata infinità del nostro regno spaziante fino agli estremi confini del globo, ossia l’argine maestro del fiume.
Ma la sortita del «Maligno» era sempre in agguato, sotto le mentite spoglie del perfido muratore “incerberito”. In realtà, il poveretto aveva ragione da vendere: faticacce insulse con secchio e cazzuola per tutta la settimana, e poi anche l’onere di tenere a bada gruppetti di mocciosi impiccioni. All’epoca però anche questo non era previsto che dovessi saperlo.
Capirlo sì, ma saperlo no.
Era sufficiente l’eco di un’accelerata intrasentita in lontananza, il tramestio di una gomma di bici sulla ghiaia, un roco colpo di tosse edile rimbombante in fondo alla via, e subito il panico serpeggiava lungo i muri occupati dai piccoli corsari: «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!» (trad. «C’è il muratore…c’è il muratore!»).
Tra parentesi, la parola “muratore”, detta nel mio dialetto, impegna forse nella più ardua sfida di pronuncia immaginabile in ogni idioma mondiale: bisogna saper cucinare lingua ad involtino sotto al palato, in modo da dire la prima “ü” di “Dürer”, ma essere nel contempo sufficientemente lesti a ripianarla per bene subito dopo, passando alla pronuncia della seconda normalissima “u”.
Il più delle volte erano falsi allarmi: in fondo in fondo, lo sapevamo che il muratore preferiva di gran lunga starsene a sorseggiare il suo prosecco all’ombra dei tendoni del “Bar Sport”, ma ci piaceva immaginarlo sempre dietro l’angolo, pronto a seminare l’allarme fra le schiere dei ribaldi micro-invasori.

Due episodi, fra i tanti di queste avventure vissute dentro i muri della fascinazione infantile, mi sono rimasti impressi nella mente.
Uno dal sapore "mitologico". L'altro dai contorni burleschi.
Talvolta mi succede di ritrovare nei meandri della memoria lontanissimi fatti che, ricoperti dalla bruma del tempo fanciullesco, sono come condensati nella dimensione del "mito". Nel senso che si sono spogliati di ogni pretesa di verosimiglianza, rimanendo vestiti solo del manto dello stupore.
Fra questi va sicuramente ricondotto il primo frammento di memoria legato alle incursioni nelle case in costruzione. Quella volta eravamo in una casa piuttosto grande per il modulo edile medio locale. Tre piani, mi pare fossero.
Fra i "capi spirituali" leader della scorribanda, c'era una ragazzina di tre o quattro anni più grande di me. Di per sé, questa era una creatura dall'aura fatale, per noi sbarbatelli piccolini.
Da tempo in odore di eroica "maschiaccità", era una mezza leggenda della nostra infanzia, già protagonista di non meglio precisate narrazioni di passate monellerie di altissimo pregio.
Quello che compì quel giorno tuttavia superò ogni magia gestuale del repertorio del perfetto scavezzacollo in erba.
Non ricordo se fosse ancora una volta il fatidico allarme ad innescare il diapason della tensione, «Gh’è ‘l müradur…gh’è ‘l müradur!»...fatto sta che nel giro di pochi secondi tutta la banda si ritrovò in posizione utile per la dignitosa battuta in ritirata. Tutti tranne "lei", la Pippi Calzelunghe dei nostri lontani giorni di "anarco-bimbetti", che con la sua consueta audacia si era spinta alle quote alte dell'edificio accessibili solo agli impavidi puri. E qui s'innesta la parte propriamente mitico-infantile, per cui sospendete pure per un momento l'incredulità, che in questi casi si fa superflua.
Vi potrei giurare infatti, anche se non fosse vero, che io la vidi "volare": dal primo o dal secondo piano, non saprei dire. So solo che l'ideale femminino della mia selvaggità bambina quel giorno prese il volo, lanciandosi nel vuoto da un terrazzo incompleto, fendendo l'aria con un urlo da vero bucaniere del Pernambuco, con le sue lunghe gambe nude che nuotavano nel vento ed i neri e fluenti riccioli schiumosi a sostenere l'abbraccio della planata.
Ricadde perfetta, scultorea ed in piedi, sana e salva come una statua della Grecia classica, coi piedi conficcati alla caviglia, sulla sommità di una soffice montagnola di sabbia fine, che era stata sin dall'inizio l'obiettivo del suo balzo mitologico.

L'altro episodio dai contorni buffoneschi, vide protagonista invece un altro amico che potrei definire storicamente un "farfallone" nei confronti degli aspetti "tecnici" della vita.
Il galateo del mini-pirata edile esigeva che spesso la casa in costruzione dovesse essere arrembata a piedi nudi.
Con la perfidia tipica dell'età acerba, ci divertimmo a rubare le stringhe dalle scarpe di questo amico bonaccione, da lui lasciate improvvidamente incustodite all'ingresso.
Lo scherzo si potrasse per lunghe estenuanti ore, al di là di ogni considerazione per l'umana pietà. Ma una sorta di bizzarra nemesi era pronta a calare sugli incauti "burlatori".
Alla fine la responsabilità della canzonatura aveva snervato gli stessi autori della beffa, non scevri da qualche filino di senso di colpa.
Mal ce ne incolse, una volta restituiti i dovuti "due" laccetti all'amico tontolone.
Perchè tutto quello era stato niente, al confronto della rullatura di maroni che dovemmo poi sorbirci fino all'imbrunire dal beffato medesimo, che sosteneva, insisteva e persisteva nella sua inconfutabile tesi, secondo la quale in ogni scarpa sono presenti normalmente due stringhe, totale quattro per paio, ragion per cui gliene dovevamo ancora due. Il suo fare avvocatizio bislacco ci perseguitò fin sulla soglia di casa, facendo barcollare il nostro equilibrio mentale stesso.
La sua proterva ottusità ci aveva alla fine storditi, facendoci ormai quasi dubitare del postulato di Ceneretola, che recita: per le asole di una scarpa passa uno ed un solo laccetto.

Anche qui non ricordo bene, ma mi pare che alla fine, per uscire vivi dalla sbilenca arringa itinerante, dovemmo far perdere le nostre tracce con qualche giro vizioso per le viuzze più contorte del paese, per seminare il molesto avvocato, gran segugio dell'assurdo.



martedì 24 novembre 2009

Narrativa edile


Oggi vi parlo di un libro già citato qualche puntata fa: «Kafka sulla spiaggia», del romanziere giapponese Murakami Haruki.
Non ho intenzione tuttavia di scrivere una recensione.
Per quella bisogna essere tagliati e poi, nel caso di opere di narrativa, si deve essere in grado di raccontare quel che basta di trama perché la recensione risulti completa, pur senza andare ad intaccare i passaggi fondanti della storia, in modo da non guastare il piacere della lettura. Sinceramente, non mi sento all'altezza di un'operazione del genere, la lascio fare a chi di dovere.
Anzi, cercherò di invertire addirittura i termini della tenzone: voglio provare a trattare di un romanzo senza fare il benché minimo accenno a trama, personaggi, ambientazioni, ecc.
Una piccola sfida.

Quella che volevo scrivere io è insomma una “pre-censione”.
Per re-censire bisogna addentrarsi nel vivo della “componente tangibile” di un libro, ossia quella serie di emozioni, suggestioni, spunti riflessivi, risultanti direttamente dalla lettura. Per pre-censire ci si può invece appostare al di fuori del libro, anzi appena sopra. Meglio ancora se abbastanza al di sopra. Sorvolarlo a volo d'uccello, guardandolo a distanza per poterne cogliere le strutture essenziali.
Invece di “pre-censione” dovrà dunque chiamarsi “supra-censione”? Può darsi.
La cosa interessante è che tutto questo mi offre l'occasione di riprendere in qualche modo il discorso relativo ai concetti di "forma" e "sostanza".

Paragoniamo per un momento il romanzo ad un edificio.
Entrambi sono percorsi da linee di forza sotterranee, interne, che ne costituiscono la struttura nascosta. Nel caso dell'edificio forse il concetto è più immediato da cogliere. Nell'«intimo» di pilastri, travi, volte, arcate, si distribuiscono i pesi e i contrappesi che vanno a costituire la “macchina statica” di tutto l'insieme. Come una circolazione sanguigna di forze in gioco, che scorrono lungo le venature della costruzione.

Entrando in un edificio, questo suo flusso dinamico interiore è proprio l'ultimo aspetto al quale un visitatore andrebbe a pensare. Passando di stanza in stanza, salendo le scale, soggiornando nei suoi locali, l'unica cosa che ci interessa fare è “leggerne la forma”. Vogliamo provare comfort, senso di rifugio, di protezione, di domesticità. Tutto, tranne sapere se ad esempio, i mattoni di un arcata sotto l'intonaco si stanno spingendo a vicenda come dei dannati per fare stare in piedi la baracca, oppure se una trave armata ci sta dando dentro di buona lena per accogliere lungo i tondini di ferro della sua anima il peso delle persone che si muovono all'interno.

In un romanzo succede una cosa simile.
Però per questa volta, con il libro di Murakami Haruki, non cercherò di appurare se le stanze siano ben illuminate e cromaticamente equilibrate, se la temperatura risulti gradevole e ponderata rispetto alle modificazioni climatiche, o se la ventilazione sia dosata nella maniera giusta. Proverò invece proprio ad occuparmi della sua circolazione sanguigna strutturale, delle forze narrative che scorrono all'interno dell'opera.
La mia “pre-censione-supra-censione” dovrà chiamarsi allora “intra-censione”? Boh, fate un po' voi. A questo punto chiamatela come meglio vi aggrada, purché non la chiamate “svacca-censione”.

«Kafka sulla spiaggia» è veramente un buon libro, anche se non il miglior Murakami che abbia letto. I miei preferiti rimangono «La ragazza dello Sputnik», «Dance, dance, dance», «Tokyo blues – Norwegian wood» e «L'uccello che girava le viti del mondo». Ma «Kafka sulla spiaggia» è comunque un gran buon Murakami.

L'impianto narrativo può sembrare sulle prime scontato, uno stratagemma da due soldi, per di più vecchio come l'arte del raccontare, ossia vecchio come l’uomo stesso. La storia infatti si dipana intorno ad alcuni gruppetti di personaggi, che inseguono le loro vicende a turno lungo i vari capitoli. In un capitolo procede una vicenda, nel successivo una seconda, e così via, a capitoli alterni.
Solo un narratore di classe può permettersi questa tecnica. Senza il completo controllo del mezzo, si rischia d'impantanarsi in un modesto “effetto fuilletton”, dando la sensazione di un costrutto artificioso. Un altro grande che sa padroneggiare questa procedura narrante in modo eccelso è il turco Orhan Pamuk (nobel letteratura 2006), ad esempio in «Il mio nome è rosso», romanzo di una bellezza ponderosa e densissima.
In «Kafka sulla spiaggia» l’alternanza della vicenda su capitoli sfalsati si dipana con la stessa naturalezza del frangersi delle onde sulla battigia: l’impennarsi dell’attesa sulla cresta di un flutto, si placa momentaneamente sul lungo distendersi del successivo, e così via in un coinvolgente crescendo globale.

Non a caso la naturalezza è l’habitat della poetica di Murakami Haruki. Questa constatazione mi offre lo spunto per introdurre un altro pilastro narrativo di «Kafka sulla spiaggia».
Forse l’elemento più straordinario del romanzo è la sua capacità di raccontare vicende totalmente improbabili e fantastiche, esponendole con la medesima “presa sul reale” che possono avere i fatti più minimali e quotidiani. Questa è la cosa straordinaria di Murakami: sa infondere la stessa sorta di bizzarra verosimiglianza sia che ti stia magari raccontando di un personaggio intento a bere una tazza di te, sia che allo stesso personaggio capiti di imbattersi in un fantasma.
Ed in questo risiede anche l’essenza di tutto il romanzo: pur non facendo quasi mai riferimento a Kafka (se non attraverso un puro nome, sfumato su una lieve invenzione dal sapore aneddotico), qui come mai in altri suoi scritti, Murakami trova felicemente la sua originale via nipponica alla «kafkità» (se mi passate l’orrendo termine).
Non si tratta chiaramente di un banale “fare il verso” al maestro boemo. Tutt’altro. Murakami dà invece dimostrazione di aver assorbito appieno la lezione di Franz Kafka e di averla rigenerata in una sua personale trasposizione.

L’operazione, nella dimensione narrativa scaturita da «Kafka sulla spiaggia», gli riesce facendo diventare pressoché superfluo il concetto stesso di verosimiglianza. Questo può accadere perché il mondo interiore dei personaggi e l’ambientazione esterna nella quale si muovono, tendono praticamente a coincidere, riflettendosi a vicenda. Ma la cosa avviene anche qui non in modo ovvio, non a livello superficiale. Per coglierla infatti è necessario scendere alle quote profonde delle forze costruttive che scorrono nell’intimo dell’edificio romanzesco.

Concludo con il solo, minimale, accenno ai contenuti del libro che mi concedo in questa “pre-supra-intra-censione”.
Non sarebbe necessario all’economia del discorso che volevo fare. Se introduco quest’ultima postilla è solo in forma di avvertimento ai lettori dall’«animo felino» che vorranno avventurarsi in questo bellissimo romanzo. Ad un certo punto della lettura, vi imbatterete in un capitolo veramente duro da affrontare per un umano dotato di vibrisse “honoris causa”. Io stesso, arrivato a questo passaggio, mi sono dovuto tenere aggrappato forte ai bordi del libro, quasi fossero le maniglie di un ottovolante in caduta frenetica verso un baratro di paura.
La sola cosa che posso dirvi è: tenete duro che ne vale la pena. Proseguendo vi accorgerete che non erano scene gratuite e che in qualche modo il vostro “felinismo” sarà risarcito. E trattandosi di uno scrittore da sempre fedele al culto del gatto in tutte le sue forme (basta dare un’occhiata al suo sito), un po’ me l’aspettavo.

venerdì 20 novembre 2009

Blue moons every nights

Avete presente il fatidico "motivetto ostinato", quello che ti si attaccatuttizza al neurone e non lo molla neanche sotto minaccia di fargli sentire tutta l'opera omnia di Albano e Romina?
Se poi capita che il "la" ti venga offerto dalla tua mezza chimera, i giochi sono fatti: Lune blu su tutti i fronti!


mercoledì 18 novembre 2009

Comodo, ma come dire, poca soddisfazione


«…Forma e sostanza…» cantavano Lindo Ferretti e i suoi Suonatori Indipendenti riuniti in Consorzio.
E fin qui siamo d’accordo, tutto normale.
La cosa un po’ meno normale è invece che la visionaria canzone dell’onirico cantore di poetiche meta-alienazioni post-metropolitane, mi sia tornata alla mente stamattina stringendo il volante della mia 313 GT, l’inutilitaria targata Gattopoli, con la quale ogni giorno mi reco in città.

L’autoradio non c’entra nulla, era regolarmente spenta. Nel tragitto antelucano attraverso le brumose plaghe di Gillipixiland, solamente a sentire un flebile cenno di voce umana potrei essere colto da irrefrenabili conati di volta-spirito.
No, no, niente autoradio dunque. L’oggetto tangibile che stavolta ha scatenato la mia reazione a catena riflessiva, è stato proprio lui: il volante della 313 GT.
E dire che si tratta del più normale e modesto dei volanti. Very very humble, nella sua “volantezza”. Il suo dovere di volante lo fa in maniera del tutto regolare. In altre parole: nella “sostanza volantesca”, nulla da eccepire.
Ma è stato un particolare della sua “forma” che mi ha fatto pensare.

Badate che da qui in avanti si andrà per importanti concetti estetici. Lasciate dunque ogni speranza voi che leggete.
Per il mio approfondimento, il volante della 313 GT è proprio ciò che serve.
Va precisato innanzitutto il concetto di “forma”, che potrebbe essere frainteso. Prendiamo ad esempio la sagoma geometrica del volante, o il suo diametro, o il diametro della sezione del tubolare da cui è costituito, o il fatto che nel mezzo ci siano delle razze attaccate al piantone dello sterzo: direste che questi elementi vadano classificati fra le caratteristiche costituenti la sua “forma”?
Uhm…così potrebbe sembrare: in un oggetto, c’è forse qualcosa di più connesso alla “forma” di quanto lo sia la sua sagoma geometrica?
Ma io dico invece di no: la sagoma geometrica e le suddette caratteristiche, fanno parte della “sostanza” del volante. L’avere una sagoma tondeggiante che agevoli la rotazione è caratteristica consustanziale all’oggetto “volante per auto ordinaria”. Per dire: in quelle da corsa, che hanno un’escursione dello sterzo molto più breve, il volante può magari essere anche tendente alla “rettangolarità”.
In un “volante per auto ordinaria” no.
Impugnando un oggetto, pur anche dotato di tutte le altre caratteristiche del volante, ma privo della sagoma tondeggiante, non si potrebbe dire di avere fra le mani un “volante per auto ordinaria”. E’ come se l’oggetto stesso mancasse. In pratica, non c’è la sua sostanza. Sarà un’altra cosa, si chiamerà “sbobbante” o “volevole”, ma di certo non volante.
Possedere una sagoma che favorisca un rapido movimento rotatorio fa parte della “volantità”.

Ma allora in questo caso che fine fa il concetto di “forma”, se nemmeno la sagoma geometrica ci rientra?
La “forma” è ciò che rimane dopo aver setacciato ogni aspetto della “sostanza”. La “forma” è il peso netto depurato della tara della “sostanza” (o viceversa).
Alla “forma” competono tutte le caratteristiche libere di mutare senza intaccare la sostanza dell’oggetto.
Il volante è giallo, blu, bianco, rosso o verdone? Rimane sempre un volante.
Il volante è liscio, ruvido, satinato, semirugoso? Rimane sempre un volante.
Il volante è di plastica, di acciaio, di alluminio? Rimane sempre un volante (anche qui un’apparente contraddizione: la sostanza, nel senso di materiale, di cui l’oggetto è composto, non fa parte in questo caso della sua “sostanza” concettuale).

«…Va beh...» dirà a questo punto spazientito il caro lettore, «…ma quando la finisci di bastonare il cane per l’aia?...».
Vengo al dunque, vengo al dunque…e riprendo in mano anche il volante della mia inutilitaria.
Cosa si deduce insomma da questa parte del mio sproloquio?
Due punti fondamentali.
Uno: distinguere gli elementi appartenenti alla “sostanza” da quelli di competenza della “forma”, non è sempre operazione così immediata.
Due: se è vero che sulla “sostanza” non si può barare (pena la perdita dell’essenza dell’oggetto), per quanto riguarda la “forma” invece possono entrare in gioco tutti i biscazzieri e gli stracci di gamblers immaginabili.

Come appunto è accaduto con il volante della 313 GT, che con una sua stravagante caratteristica formale mi ha fatto un po’ sobbalzar d’ilare sdegno.
Cosa non ti vanno mai ad accarezzare infatti i miei polpastrelli e palmi delle mani, ogni qual volta impugno il fatidico “tondo guidi”?
Ovvove!!! Una simil-superficie plastica maldestramente taroccata in guisa di simil-pelle di un non meglio precisato simil-animale, estinto ancor prima di appartenere a qualsivoglia simil-specie!!!
Ditemi voi che senso può avere: un accessorio fondamentale, come il volante in plastica, montato su uno degli strumenti più preclari della modernità, qual è l’automobile, agghindato con una fasulla rifinitura, che pretende di rievocare bislaccamente vetuste guarnizioni in pelle da cocchio stile Belle Epoque, o giù di lì.


Ed eccoci alfin giunti al concetto estetico cruciale di tutto il mio discorso. Dal volante di una inutilitaria al mondo dell’espressività e dell’arte in generale, il passo non è breve. Ma grazie alla fantasia che nella mente frolla del viandante per pensieri di certo non scarseggia, l’ardua impronta è tosto posta innanzi.
Cosa ci insegna infatti un umile volante di 313 GT, riguardo al modo in cui i frutti dell’ingegno umano “ci parlano”?
Che tra “forma” espressiva e “sostanza” espressiva ci deve essere una sintonia consequenziale; e che lo scollamento tra “forma” e “sostanza” può causare una stonatura inaccettabile che va ad inficiare tutto l’atto comunicativo nel suo insieme.
La riflessione, portata in alto di diversi gradini, sino a farle raggiungere i livelli del ragionar d’arte, introduce la categoria del «kitsch».
Il «kitsch» fa la sua comparsa quando, per “maldestria” (sono orgoglioso di questo neologismo, che si contrappone nel suono e nel senso a “maestria”) o per cattiva fede, l’artista si lascia scappare o introduce scientemente uno scollamento tra “forma” e “sostanza” espressiva.

La morale della favola è ancora una volta duplice e correlata.
Uno: se già risulta non proprio banale distinguere tra “forma” e “sostanza” in un umile volante di 313 GT, figurarsi come potrà essere arduo in ambiti espressivi ben più complessi.
Due: l’inganno espressivo praticato attraverso un umile volante suscita al massimo un sorriso, mentre la truffa creativa imbastita con strumenti comunicativi ben più articolati (dove forma e sostanza sono ancor più compenetrati, reciprocamente sfumati) può dare adito a pericolosi fenomeni di manipolazione delle menti “esteticamente” più sprovvedute ed indifese.

That’s all, folks!
…e se fino a qui ve le ho cantate io, ora lasciatevele cantare un po’ anche da Lindo…



martedì 17 novembre 2009

lunedì 16 novembre 2009

Pensieri sfogliati


Ieri mattina, prima di andare a fare un giretto in piazza, mi sono messo a rastrellare le foglie intorno a casa.
Come attività è tanto banale quanto foriera di vagabondaggio per pensieri.
Se le piante sono in numero discreto, con produzione ragguardevole di fogliame, l'impresa assume contorni grotteschi con sfumature mitologiche. Più ne raccogli, di quelle vegetali perfide pellicolette auree, e più ti sembra se ne accumulino.
Dopo qualche momento, quando sei riuscito a dar forma già a svariati montarozzi criso-muschiati, cominci a sentirti una mezza via fra Ercole chiamato alla titanica impresa della pulitura delle stalle di Augia, e Paperon de Paperoni che sguazza fra rivoli di monete lucenti. Con la lieve variante che le foglie, al cambio corrente, te le valutano una beneamata.

Immerso in questo soffuso non-senso, per di più col venticello che ti rammenda di foglie fresche il pezzettino di prato testé spazzolato, non ti rimane che dar libero sfogo al pensiero, cullandolo con l'andirivieni del rastrello. Così, pensa che ti ripensa, mi sono ritrovato a riflettere sul fatto che avevo addosso svariati ammennicoli portatori di memoria artificiale.
In una tasca delle braghe, due chiavette USB che mi porto sempre appresso, una da 1 giga e l'altra da 8. Nel giubbotto, il cellulare e il lettore mp3 da 2 giga, che tra l'altro, rigorosamente appigliato tramite cuffiette ai miei timpani, forniva ulteriore supporto riflessivo.
A quel punto mi è venuta in mente una cosa sentita l’altro giorno dal barbiere.
Una persona affetta da un disturbo nervoso, che da tempo lo costringeva ad improvvisi movimenti compulsivi fuori controllo, grazie all'impianto di un'apparecchiatura direttamente connessa alla fonte cerebrale dell'impulso sghembo, riesce ora ad evitare quegli scatti involontari.
Ora, stando alla descrizione del facondo tonsore, ci si immaginava quasi che dall'intervento fosse uscito fuori un cugino di secondo grado del prode hacker Neo, pronto a rinnovare la sfida con le oscure forze di Matrix.
Ma pur prendendo la notizia col dovuto beneficio d'inventario, depurandola ben bene dell'opportuna colorita tara "barbieresca", è un fatto che l'intromissione diretta della medicina nei nostri "centri decisionali" sia ormai divenuta realtà. Tanto più quando la faccenda si ritrova ad incrociarsi con altre discipline competenti in materia, come cibernetica, robotica e simili diavolerie moderne.
Insomma, rastrella che ti ripenso, defoglia che ti rimugino fra le tasche, mi sono sorpreso a domandarmi quanto tempo passerà ancora sino giorno in cui ci ritroveremo a poter intessere un colloquio in presa diretta fra la mente e queste appendici mnemoniche, senza intermediazione operativa di altre protesi informatiche come pc o lettori elettronici vari ed eventuali.
Chissà se un giorno sarà fattibile, ma soprattutto, chissà che conseguenze avrà la cosa. Seguendo la matassa dei pensieri, mi sono divertito ad ipotizzare alcuni scenari simil-faceti.

Il nostro processore spiritual-razionale sembra funzionare con tre software principali: Io, Es, e SuperIo. La convivenza dei tre programmi però è spesso faticosa. In fondo, ognuno dei tre reparti vorrebbe andare per la sua strada.
L'Es non capisce altro che di godimento e stravizi: se prendesse in mano tutta la baracca lui, tempo due giorni e sei bollito.
Il SuperIo vorrebbe vedere ordine ovunque, e all'uopo infradicia le sinapsi di sensi di colpa. Mentre l'Io si accontenterebbe di fare la sua vitaccia regolare, sentendosi dire sempre e solo pane al pane e vino al vino.

Immaginavo allora cosa potrebbe significare ritrovarsi con la disponibilità di parcheggiare momentaneamente uno o più dei suddetti programmi su di un disco rigido esterno.
Prendiamo ad esempio un data-base stupendo che il nostro hardware si ritrova talvolta a processare: l'innamoramento. Una sensazione bellissima, ma anche molto faticosa.
A seconda che la cosa venga macinata da uno dei tre programmi, assume sfumature diverse: l'Es non si schioderebbe mai più dal letto, l'Io azzarderebbe timidamente normalissimi progetti per una serena convivenza, mentre il SuperIo si tufferebbe a pesce in una pianificazione della carriera dei quattro figlioli che come minimo esigerebbe quale frutto del solidissimo matrimonio auspicato.
Quando ciascun programma elabora l’innamoramento secondo la propria competenza, le cose sembrano non andare neanche malaccio.
I problemi nascono quando i dati entrano contemporaneamente nei circuiti integrati di tutti e tre i software. Allora si inizia a sentire la ventola psichica supplementare che ronza all’impazzata, mentre finestre mentali si chiudono senza motivo, con relativo avviso di segnalare l’inghippo a Microbrain o a Cerebrapple, dipende da che sistema avete caricato (…tanto poi di regola si sceglie sempre il pulsante “non inviare”…).

Ma in un futuro, col nostro disco esterno, forse potremo mettere in standby qualche programma senza lasciare che interferisca o crei attriti con il resto del sistema.
Metti che sei cotto/a di una tipa o di un tipo. Spunti un’uscita serale e sei già in palla perché ti prefiguri gelidi momenti di timidezza, rossori inopportuni, mancanza di argomenti nel dialogo, tonalità vocali fracchiesche, secchezza delle fauci, sudorazione copiosa, piede palmato e alluce del tennista.
Niente panico: Start/Impostazioni/Pannello di controllo/Installazione applicazioni/SuperIo/Cambia-rimuovi: e giù che l'Es e l'Io si possono sbizzarrire a più non posso, il primo dando sfogo a tutta la sua arcaica disinibizione e il secondo bullandosi da gran playboy imperiale.
Basterà avere l'accortezza di programmare per il mattino successivo la re-installazione automatica del Super-Io, per non ritrovarsi a Las Vegas con in mano un certificato di matrimonio rilasciato dal pastore della chiesa Elvis-Presleyana, sottocongregazione del Basettone Celeste Miracoloso.

Altra situazione: un "creativo finanziario" ha mandato sul lastrico migliaia di famiglie.
Dov'è il problema? Gli si disinstallano Es ed Io!
Non passa mezz’ora che è già corso all'aeroporto, biglietto alla mano per le isole Cayman (o paradiso fiscale equipollente). L’aereo ha ancora le gomme calde sulla pista d’atterraggio del cassonetto finanziario, che lui è già corso dal suo insabbiatore di fondi neri di fiducia.
Lì, si mette a far piovere bonifici congrui sui conti dei poveri truffati, vende i 10 yacht, le 40 ville, e dismette 7 bordelli ben avviati, interessandosi di persona circa un futuro lavorativo dignitoso per le ragazze neo-disoccupate. Col ricavato paga tutte le tasse evase, poi torna a casa in barca a remi condotta da sé medesimo ed accetta di buon grado la generosa offerta di lavoro alla catena di montaggio di una rinomata fabbrica di raddrizzamento banane, rigorosamente solo turni di notte.

Uhm, no eh?…Decisamente no…
Alla fine me ne sono reso conto pure io: rastrellare le foglie non fa per niente bene all’equilibrio mentale…