L’asocialità è un po’ come una droga. Maggiori quantità ne assumi e più l’assuefazione sale. Almeno, a me succede una cosa del genere (ma non preoccupatevi: non è roba contagiosa e capita solo ai suonati più gravi, tipo me).
So che non è il migliore degli atteggiamenti. Per quanto sta nelle mie forze, cerco di combattere per contrastare la dipendenza. Uno straccio di vita sociale lo tengo in vita, gli faccio il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale sforzandomi di vedere qualcuno ogni tanto. Ma i frangenti del vivere poi ti blandiscono, alla fine non ci puoi fare più di tanto e ricadi nel tunnel.
Se sto alcuni giorni vedendo poca o nulla gente (com’è successo di recente, durante alcuni giorni di ferie), tendo ad adagiarmi nella mia presunta autosufficienza spirituale. L’illusione del “bastare a se stessi” si fa intensa. La cappa del focolare della completezza interiore si mette a tirare che è una meraviglia e bastano quei pochi visi noti presi nelle giuste dosi familiari ed amicali, per tenere sempre accesa la brace di una parvenza sociale, come contrappunto giustificativo. Un promemoria per non scordare che fai ancora parte del genere umano. Perché a volte, fosse per quello che mi consta, mi sento proprio calato in una nuova specie della quale sono l’unico rappresentante sopravvissuto sulla terra, nonché l’unico prototipo del quale sia mai stato avvistato esemplare scientificamente riconosciuto.
Che ne so, forse il Gillipixesius Humoralis Solipsistick…oppure il Pixeloidus Gilliformis Se Ipsum Manu Turbantis…
Un tempo, constatare questa cosa dentro di me mi faceva spavento. Nei caotici passaggi dell’adolescenza, soprattutto, quando l’impressione di essere una bestia rara sul procinto di estinguersi era un tratto comune di quasi tutte le giornate.
Ricordo in particolare un ritorno a scuola dalle vacanze natalizie, al tempo dei primi anni del liceo. La sensazione estraniante provata in quell’occasione fu talmente intensa da lasciarmi turbato in misura abnorme. A rivedere i compagni di classe, i professori, un po’ tutto l’arredo vivente della scuola insomma, mi sentivo come messo fra 10 parentesi che mi trasponevano in un’umanità esclusiva tutta mia, remotissima da quella altrui. Fluttuavo in una bolla isolata, solo in mezzo a tanti, ed ogni contatto con gli altri era pur sempre un parlare od esprimersi nella maniera più normale, ma lo percepivo scaturire da me come un boccheggiare e un gesticolare vano, lontano milioni di anni luce dall’eventualità di essere decodificato dall’esterno.
Una reminiscenza di quelle sensazioni me l’ha riservata il ritorno al lavoro stamattina. Sono arrivato in città ben foderato di “campagnolflex”, un materiale dal fortissimo potere isolante contro ogni tipo di relazione umana, roba che cinque spanne di poliuretano non sono niente.
Ma mi sono reso conto che ormai molte cose sono cambiate. Ormai sono invecchiato, non sono più quell’inflessibile professionista dell’introversione di un tempo. Un asso ero all’epoca, il Barone Rosso dell’asocialità.
Adesso, sì, la mia essenza rimane e non la posso tradire, certo, ma son divenuto un modesto pilota dell’Alitalia, per di più in fase di transizione “CAI - AirFrance"..."…che - la - riforma - della - Giustizia - si - fa – con - o - senza – minoranza – e - l’Italia - è - stretta - nella - morsa - del – gelo -…”.
Soprattutto non mi fa più tanto paura essere così. Ed averne meno paura mi aiuta anche ad essere meno così. Sapere che l’asocialità è nella mia essenza, e che non devo cercare di cambiarla incamminandomi inutilmente per vie comportamentali che non mi sono consone, paradossalmente mi aiuta a vedermi meno diverso e singolare, meno bestia rara, e come conseguenza mi dà una mano ad aprirmi di più verso gli altri, perché (citando la celeberrima invettiva rivolta da “Bambino-Bud Spencer” al fratello “Trinità-Terence Hill”, per redarguirlo circa il suo bizzarro modo di stare in sella) in questa ottica acquisita con l’esperienza degli anni, mi sento visto dagli altri non più come un alieno lontano tre mondi e due universi, bensì come un semplice, comunissimo, “bastardo qualsiasi”.
So che non è il migliore degli atteggiamenti. Per quanto sta nelle mie forze, cerco di combattere per contrastare la dipendenza. Uno straccio di vita sociale lo tengo in vita, gli faccio il massaggio cardiaco e la respirazione artificiale sforzandomi di vedere qualcuno ogni tanto. Ma i frangenti del vivere poi ti blandiscono, alla fine non ci puoi fare più di tanto e ricadi nel tunnel.
Se sto alcuni giorni vedendo poca o nulla gente (com’è successo di recente, durante alcuni giorni di ferie), tendo ad adagiarmi nella mia presunta autosufficienza spirituale. L’illusione del “bastare a se stessi” si fa intensa. La cappa del focolare della completezza interiore si mette a tirare che è una meraviglia e bastano quei pochi visi noti presi nelle giuste dosi familiari ed amicali, per tenere sempre accesa la brace di una parvenza sociale, come contrappunto giustificativo. Un promemoria per non scordare che fai ancora parte del genere umano. Perché a volte, fosse per quello che mi consta, mi sento proprio calato in una nuova specie della quale sono l’unico rappresentante sopravvissuto sulla terra, nonché l’unico prototipo del quale sia mai stato avvistato esemplare scientificamente riconosciuto.
Che ne so, forse il Gillipixesius Humoralis Solipsistick…oppure il Pixeloidus Gilliformis Se Ipsum Manu Turbantis…
Un tempo, constatare questa cosa dentro di me mi faceva spavento. Nei caotici passaggi dell’adolescenza, soprattutto, quando l’impressione di essere una bestia rara sul procinto di estinguersi era un tratto comune di quasi tutte le giornate.
Ricordo in particolare un ritorno a scuola dalle vacanze natalizie, al tempo dei primi anni del liceo. La sensazione estraniante provata in quell’occasione fu talmente intensa da lasciarmi turbato in misura abnorme. A rivedere i compagni di classe, i professori, un po’ tutto l’arredo vivente della scuola insomma, mi sentivo come messo fra 10 parentesi che mi trasponevano in un’umanità esclusiva tutta mia, remotissima da quella altrui. Fluttuavo in una bolla isolata, solo in mezzo a tanti, ed ogni contatto con gli altri era pur sempre un parlare od esprimersi nella maniera più normale, ma lo percepivo scaturire da me come un boccheggiare e un gesticolare vano, lontano milioni di anni luce dall’eventualità di essere decodificato dall’esterno.
Una reminiscenza di quelle sensazioni me l’ha riservata il ritorno al lavoro stamattina. Sono arrivato in città ben foderato di “campagnolflex”, un materiale dal fortissimo potere isolante contro ogni tipo di relazione umana, roba che cinque spanne di poliuretano non sono niente.
Ma mi sono reso conto che ormai molte cose sono cambiate. Ormai sono invecchiato, non sono più quell’inflessibile professionista dell’introversione di un tempo. Un asso ero all’epoca, il Barone Rosso dell’asocialità.
Adesso, sì, la mia essenza rimane e non la posso tradire, certo, ma son divenuto un modesto pilota dell’Alitalia, per di più in fase di transizione “CAI - AirFrance"..."…che - la - riforma - della - Giustizia - si - fa – con - o - senza – minoranza – e - l’Italia - è - stretta - nella - morsa - del – gelo -…”.
Soprattutto non mi fa più tanto paura essere così. Ed averne meno paura mi aiuta anche ad essere meno così. Sapere che l’asocialità è nella mia essenza, e che non devo cercare di cambiarla incamminandomi inutilmente per vie comportamentali che non mi sono consone, paradossalmente mi aiuta a vedermi meno diverso e singolare, meno bestia rara, e come conseguenza mi dà una mano ad aprirmi di più verso gli altri, perché (citando la celeberrima invettiva rivolta da “Bambino-Bud Spencer” al fratello “Trinità-Terence Hill”, per redarguirlo circa il suo bizzarro modo di stare in sella) in questa ottica acquisita con l’esperienza degli anni, mi sento visto dagli altri non più come un alieno lontano tre mondi e due universi, bensì come un semplice, comunissimo, “bastardo qualsiasi”.
4 commenti:
in fondo un indice di non uniformazione. se ci pensi viene dalla timidezza, ma anche da l'aver avuto una storia di vita strampalata o un evoluzione interiore che ti porta lontano dal sentire comune. essere fuori dagli stereotipi di categoria ti fa sentire estraneo... be' quando ci fai pace con la sensazione di essere un pesce solo in un acquario e ti godi l'acquario, mi sa che sei diventato grande ;-)
belle parole, Farly, hai aggiunto un importante elemento di riflessione a quello che ho scritto io...grazie...
"fundri" e "savol" dice blogspot:
il primo ottimo formaggio prodotto nella vallata degli gnomi, il secondo una deliziosa verdurina che ci va bene insieme fritta, per il tipico piatto della sagra degli gnomi "fundri e savol" :-)
e mettile sul blogghetto le definizioni così carine cavolo!! :) crampla dice st'impertinente!
eheheheh...devo trovare solo un po' di tempo e poi mi scateno sul bloghetto :-)
amedg, amedg :-)
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