(Trash-montaggio di Gillipixel -
del quale Gillipixel medesimo
si vergogna sommamente,
con la parziale scusante di non
aver potuto nulla di fronte
all'irrefrenabile anima
trash-agreste che si ritrova)
del quale Gillipixel medesimo
si vergogna sommamente,
con la parziale scusante di non
aver potuto nulla di fronte
all'irrefrenabile anima
trash-agreste che si ritrova)
Siccome ogni minaccia è debito, vorrei mantenere la promessa fatta sul limitar del precedente scribacchiamento ed aggiungere un elemento di riflessione personale a proposito della forza conoscitiva del mito.
Pare insomma che il mito inglobi la "verità" come un pezzo d'ambra fa con gli insetti o altre piccole porzioni di vita, fermandole nel tempo. In modo analogo, il mito "congela" le verità esistenziali in una dimensione che in qualche misura ce le mostra ponendocele dinnanzi, pur lasciandole imprigionate in una sostanziale inafferrabilità diretta.
Vedete che a tentare di parlare del mito si finisce per avvoltolarsi in circonvoluzioni di senso, praticamente impossibilitati ad uscire dallo spirito labirintico che è proprio del mito stesso.
Ed ecco che qui si inserisce la parte mia personale di riflessione che vorrei aggiungere al discorso. Pensavo in questi giorni in particolare ad un elemento narrativo che ricorre in diversi miti: la proibizione di osservare l'oggetto del proprio desiderio (che poi è sempre un soggetto, almeno per gli esempi che mi ricordo).
Succede nel mito di Amore e Psiche: l'intesa amorosa fra i due può sussistere finché Psiche si attiene al patto di non pretendere di guardare mai l'amato direttamente.
Succede ad Orfeo disceso nell'Ade per riportare nel regno dei vivi l'amata Euridice, alla condizione di condurla per mano lungo il tragitto, senza girarsi ad osservarla in volto. Orfeo cade nella tentazione voltandosi indietro, ed Euridice sfuma di nuovo irrimediabilmente fra le ombre dell'Ade.
Succede in un certo senso anche a Narciso, che si "danna" osservando l'immagine di se stesso nello specchio d'acqua (anche se forse questo è un esempio meno pertinente per il mio discorso).
Se diamo dunque per buoni gli assunti posti sinora (e io li darei per buoni, già che sono nelle spese), dietro al velo narrativo del mito ci dev'essere una qualche verità profonda.
E non ve lo saprei spiegare in modo chiaro e lineare (altrimenti non ci sarebbe bisogno di ricorrere al mito), ma questo non poter osservare il “tema” del proprio desiderio direttamente “in volto”, mi pare di averlo percepito spesso. L’ho percepito in una sensazione vaga e soffusa, e quello che mi sembra di aver subodorato nella mia esperienza è che più ci si sforza di rinfocolare un desiderio, più lo si carica di speranze, più lo si blandisce, più ci si trastulla in una vagheggiata prospettiva di concretizzazione, insomma più lo si tiene bello e fisso di fronte alla propria considerazione costante, e più quel vigliacco stenta a realizzarsi, sfugge, si auto-rimanda, si trasforma nel nostro tormentone in perpetua dilazione.
Il desiderio allora non lo puoi guardare negli occhi, ma pur sapendo che nel tuo intimo esso continua a persistere, lo devi abbandonare così, ungarettianamente "come una cosa posata in un angolo e dimenticata".
Più si tiene alla realizzazione del desiderio, più gli si deve passare accanto quasi ignorandolo, trattandolo come la lettera rubata di Poe. Pur sapendolo lì sul tavolo, banalmente alla portata della tua “vis desiderandi” (se mi passate questa latinata in italiacano, questo sformato di maccheroni latini), bisogna fare finta che non ci sia, quasi snobbarlo, e forse un giorno, quando meno te lo aspetti, ti accorgi che si è realizzato, spazzando via nel frattempo anche la tentazione di fissarlo negli occhi oppure no.
Pare insomma che il mito inglobi la "verità" come un pezzo d'ambra fa con gli insetti o altre piccole porzioni di vita, fermandole nel tempo. In modo analogo, il mito "congela" le verità esistenziali in una dimensione che in qualche misura ce le mostra ponendocele dinnanzi, pur lasciandole imprigionate in una sostanziale inafferrabilità diretta.
Vedete che a tentare di parlare del mito si finisce per avvoltolarsi in circonvoluzioni di senso, praticamente impossibilitati ad uscire dallo spirito labirintico che è proprio del mito stesso.
Ed ecco che qui si inserisce la parte mia personale di riflessione che vorrei aggiungere al discorso. Pensavo in questi giorni in particolare ad un elemento narrativo che ricorre in diversi miti: la proibizione di osservare l'oggetto del proprio desiderio (che poi è sempre un soggetto, almeno per gli esempi che mi ricordo).
Succede nel mito di Amore e Psiche: l'intesa amorosa fra i due può sussistere finché Psiche si attiene al patto di non pretendere di guardare mai l'amato direttamente.
Succede ad Orfeo disceso nell'Ade per riportare nel regno dei vivi l'amata Euridice, alla condizione di condurla per mano lungo il tragitto, senza girarsi ad osservarla in volto. Orfeo cade nella tentazione voltandosi indietro, ed Euridice sfuma di nuovo irrimediabilmente fra le ombre dell'Ade.
Succede in un certo senso anche a Narciso, che si "danna" osservando l'immagine di se stesso nello specchio d'acqua (anche se forse questo è un esempio meno pertinente per il mio discorso).
Se diamo dunque per buoni gli assunti posti sinora (e io li darei per buoni, già che sono nelle spese), dietro al velo narrativo del mito ci dev'essere una qualche verità profonda.
E non ve lo saprei spiegare in modo chiaro e lineare (altrimenti non ci sarebbe bisogno di ricorrere al mito), ma questo non poter osservare il “tema” del proprio desiderio direttamente “in volto”, mi pare di averlo percepito spesso. L’ho percepito in una sensazione vaga e soffusa, e quello che mi sembra di aver subodorato nella mia esperienza è che più ci si sforza di rinfocolare un desiderio, più lo si carica di speranze, più lo si blandisce, più ci si trastulla in una vagheggiata prospettiva di concretizzazione, insomma più lo si tiene bello e fisso di fronte alla propria considerazione costante, e più quel vigliacco stenta a realizzarsi, sfugge, si auto-rimanda, si trasforma nel nostro tormentone in perpetua dilazione.
Il desiderio allora non lo puoi guardare negli occhi, ma pur sapendo che nel tuo intimo esso continua a persistere, lo devi abbandonare così, ungarettianamente "come una cosa posata in un angolo e dimenticata".
Più si tiene alla realizzazione del desiderio, più gli si deve passare accanto quasi ignorandolo, trattandolo come la lettera rubata di Poe. Pur sapendolo lì sul tavolo, banalmente alla portata della tua “vis desiderandi” (se mi passate questa latinata in italiacano, questo sformato di maccheroni latini), bisogna fare finta che non ci sia, quasi snobbarlo, e forse un giorno, quando meno te lo aspetti, ti accorgi che si è realizzato, spazzando via nel frattempo anche la tentazione di fissarlo negli occhi oppure no.
3 commenti:
Bello questo post!
bello proprio... molto adatto a quello che mi passa per la testa in questi giorni, desiderio che non puoi vedere perché nascosto dalle tue proiezioni su di esso, o essere umano mai visto davvero sempre per lo stesso motivo...
sycnol dice blogspot, richiamando sincronie olistiche ;-)
eheheeh...grazie amiche, siete molto care...non sum dignus, non sum dignus...:-)
sono contento di aver toccato qualcosa nelle vostre anime pregiate...
sphasing direi allora, nuova tendenza newyorkese per ingannare la noia, che consiste nello sfasare tutti gli orari della giornata di un lasso di tempo scelto a caso ogni giorno :-)
P.S.: il nostro bloghetto è un po' fermo, urge darci dentro di fantasia :-))))
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