sabato 20 marzo 2010

Lusinguato


Posso dire senza tema di smentita che fra le mie passioni più sfrenate di sempre rientrano anche le lingue.
Alt! Stop! Frena!...vi fermo subito: non state a pensare a nulla di torbido, nè di sensualussurioso-oh-oh-oh-suineggiante.
Sto parlando delle lingue come idiomi, non delle pratiche linguesche concrete, con tanto di convenevoli papillari reciproci ed affettuosi combaciamenti vicendevoli di roride superfici orali, che pure (come negarlo?) hanno il loro perchè.

Le lingue mi hanno sempre affascinato, anche se nella mia pigrizia inveterata non ho mai saputo andare in fondo alla questione più di tanto, rimanendo perennemente un cultore amatoriale della materia.
Il problema dalla traduzione da un idioma all'altro, in particolare, è la chiave di volta di tutto il fascino della faccenda. Osservare come un termine o un sintagma utilizzato in una lingua si tramuta quando passa in un'altra, con tutte le implicazioni semantiche che cozzano fra di loro, si abbracciano, vanno di pari passo o poi d'un tratto si sfuggono come schifandosi vicendevolmente. Tutto questo è magnifico. Perchè sotto quel lavorio di distillazione, se hai orecchio e cuore, puoi sentire i modi di pensare che stanno dietro ai modi diversi di parlare.

Da qualche parte una volta lessi una bella frase riguardante l'atto del tradurre. Non la ricordo letteralmente, ma in fatto di contenuti suonava più o meno così: tradurre è un gesto lodevole, indispensabile, per certi versi eroico, e tuttavia, del tutto disperato.
C'è un qualcosa di "tragico" (inteso il termine nel suo senso meno cupo e più nobilitante) nell'accostarsi di due linguaggi diversi. S'intesse quasi una sorta di nostalgia per quella quota di indicibile che mai potrà esplicitarsi nel passaggio da una parlata all'altra e viceversa.

Se capita che un qualche elemento del vivere si ritrovi più o meno adornato dei colori dell'irraggiungibilità, ecco che nell'uomo scatta automatico un senso di attrazione irrefrenabile per quella porzione di realtà. Il meccanismo non fa eccezione per quel che riguarda la lingua, nella fattispecie del punto che ho appena sottolineato.
La quota di quel quantum di ineffabile che, sul cammino della significazione mantiene lontani, seppur di pochi centimetri, due idiomi l'un l'altro stranieri, si potrebbe misurare con i medesimi centimetri che tengono separati da un amore impossibile
Oppure, questa parte di indicibile equivale all'asintotico scarto che perennemente accompagna lo spingersi verso quella sensuale fusione fisica e dell'anima, la cui meta definitiva viene spostata sempre più avanti, tipico dell'amplesso amoroso più intenso ed appassionato.

La bellezza crudele del confronto fra due lingue, sta dunque tutta lì: conoscendo un po' di entrambe, si riesce a cogliere il loro chiamarsi vicendevole, irrevocabilmente frustrato tuttavia da un senso di separazione assai simile a quello che accompagna il rapporto epistolare fra due amanti costretti a volersi bene nella lontananza irrimediabile che li separa.


Si tratta quindi pur sempre di un esercizio di bellezza e, riprendendo un passo del «Mercante di Venezia» (Atto V, scena I) di William Shakespeare, da me citato un po' gratuitamente qualche puntata fa, armato di testo originale e nel pieno spirito del mio rigoroso dilettantismo (chiedo dunque venia anticipatamente per eventuali vaccate), mi sono gingillato (o meglio: Gingillipixelato) a spulciare alcuni termini preziosi e a gustarne la profondità.
Naturalmente, quasi scordavo di dire tanto è superfluo, il passaggio da lingua a lingua privilegia sempre la parte in cui il capolavoro d'origine è collocato. Per cui ne deriva che, per il presente caso, la maggior gloria verrà tributata all'idioma inglese.

Il primo passo in italiano suonava tipo in questo modo:

Lorenzo –
La luna splende chiara. In una notte come questa, quando lieve baciava gli alberi il dolce vento senza il minimo fruscio, in una notte come questa credo che Troilo scavalcò d'Ilio le mura e sospirò l'anima verso le tende greche dove Cressida si giaceva quella notte.

Eccolo invece in inglese:

Lorenzo –
The moon shines bright. In such a night as this
When the sweet wind did gently kiss the trees
And they did make no noise, in such a night
Troilus methinks mounted the Troyan walls,
And sighed his soul towards the grecian tents
Where Cressid lay that night.

Nello spirito sopra illustrato del mio esercizio di bellezza, ho riposto il meglio dell'attenzione a rilevare i particolari inglesi, la cui immediatezza, preziosità, unicità, non potevano essere rese in italiano.
Ovvio che entrino i gioco anche giudizi del tutto personali. Come nel caso della prima frase notevole in fatto di sonorità, laddove l'inglese "...In such a night as this..." mi pare molto più evocativo del nostro "...In una notte come questa...".
E la differenza la fa lo scarto di un piccolo "...such...", che in italiano potrebbe essere forse reso con "...siffatto...", ma con scarso esito, credo.
Nel prosieguo dei versi "...In such a night..." si trasforma in una sorta di leitmotif di questa cantilena a due voci pronunziata dai due innamorati, Gessica e Lorenzo. Ma Shakespeare, che ha dalla sua la suggestione di quel minuscolo "...such...", può concedersi il lusso di sottolinearci il fatto che un gioco verbale fra amanti si sta inaugurando, semplicemente differenziando la primissima versione della formula (che è "...In such a night as this...") e ripetendola in seguito poi in forma ridotta, grazie appunto al "...such...", con l'elisione di "...as this...", ormai divenuto superfluo nel clima di familiarita ludica messo in piedi dai due dialoganti in amore.
Molto più piatto invece l'italiano, che "parte in tromba" con "...In una notte come questa..." e si mantiene monocorde su quel tono sino alla fine del piccolo cerimoniale verbale, usando cioè sempre la formula "...In una notte come questa...".
Ma il punto che più mi ha esaltato in assoluto in questo passo, risiede in quella paroluzza fantastica che ho ingrassettato al pari delle piccole frasi di cui ho appena parlato: "...methinks...".
Qui la fragilità del mio dilettantismo si fa sentire in maniera piuttosto intensa, e non so dire se si tratti di un'espressione inglese antica poi caduta in disuso, o cos'altro.

Nella mia ignoranza storico-linguistica mi azzardo tuttavia a dire che trattasi di parolina assolutamente deliziosa, una leccornia per i patiti del linguaggio. Anche e soprattutto perchè, sempre in virtù del mio discorso primario sulla bellezza crudele dell'atto del tradurre, "...methinks..." è una paroluzza assolutamente irrestituibile nella nostra lingua. Potremmo forse ipotizzare un "...me crede..."?
Sì, ma lo faremmo a costo di distorsioni inaccettabili, e anche quando, non otterremmo ancora lo scopo. Perchè se proprio proprio, allora, ancor più corretto e più distorto, dovremmo far ricorso ad un improbabile "...mecrede...", senza spazio alcuno di mezzo.
Ma tradurre vuol dire trasportare i significati contenuti nei termini di una lingua, in significati consimili espressi in un'altra lingua tramite termini esistenti: la creazione di neologismi (nel limite dell'accettabile) non è contemplata fra i compiti del traduttore.
Da una rapida ricerca sul web, leggo che trattasi di un vero e proprio verbo, usato in forme "archaic or humorous", e che sta per "it seems to me". Possiede pure una sua forma passata: "methought".
Dunque "...methinks..." sia, e "...methinks..." rimanga, incastonato e inestrapolabile dall'espressività esclusiva riservata alla sua lingua di pertinenza originale.

E ancora, proseguendo e salatando un po':

Gessica -
In una notte come questa Tisbe, mentre sfiorava con trepido passo i prati già coperti di rugiada, fuggì ad un tratto atterrita e discinta, avendo visto l'ombra del leone.

Col suo inglese:

Gessica -
In such a night
Did Tisbe fearfully o'ertrip the dew
And saw the lion's shadow ere himself,

And ran dismayed away

Il bellezzometro (= misuratore di bellezza linguistica) s'impenna qui su "...o'ertrip the dew...". Anche in questo caso, siamo di fronte ad un termine arcaico (almeno credo). Più che sfiorare, la parola inglese "...o'ertrip..." dà il senso di un "passaggio sopra", che unito all'idea della rugiada rende il tutto ancor più poeticamente irreale: sfiorare la rugiada camminando è già un'immagine intensa, ma addirittura "passarci sopra" rende l'effetto di un che di magico e portentoso.
Per non parlare poi del fascino della rugiada inglese, che ancora oggi suona come "...dew...", termine molto più lieve, che riflette meglio l'essenza soffusa di quel fuggevole fenomeno naturale, più del nostro pur bello italiano "rugiada", che, "rostrato" come un'antica nave da guerra romana dell'uncino di quella "r" iniziale, si avvinghia al suo significato rendendo meno giustizia alla fuggevolezza di quel vapore acqueo posato sulle cose notte tempo.

Ma troppo ci sarebbe da scrivere, leggendo Shakespeare in questo modo stupefatto. Concludo con un solo altro passo, contente l'ennesimo diamante linguistico.

In italiano:

Gessica –
A seguitar con te in questo gioco delle notti storiche, io, son sicura, ti subisserei, se nessuno venisse a disturbarci; attenti, ecco, sento un passo d'uomo.

In inglese:

Gessica –
I would out-night you, did nobody come;
But hark, I hear the footing of a man
.

Rimarco qui solo la stupefacente bellezza di "...out-night you...".
Come potrebbe rendere il traduttore questo piccolo capolavoro di sintesi e di completezza semantica? Forse con uno strampalato "...ti soprannotterei..."?
No, molto più semplice: il traduttore non lo rende in alcun modo, se non con una perifrasi alquanto lunga, che giustamente dichiara la sconfitta dell'atto del tradurre, le due lingue come due amanti che mai riescono a compenetrarsi anima e corpo fino in fondo, sopraffatti dall'immensità del proprio confronto amoroso.



8 commenti:

Yossarian ha detto...

methinks = mi sembra

Cosi' mi par di ricordare dal liceo (linguistico).

La tua traduzione era corretta.

E' Old English come il resto.

Due curiosita', se ti va e se mi posso umilmente permettere :-)

l'inglese del Bardo era foneticamente piuttosto diverso da quello attuale.

Se ne sono accorti gli studiosi esaminando e comparando le rime scespiriane.

Alcune parole che oggi non rimano, all'epoca rimavano, ergo la proinuncia doveva essere diversa.

Per esempio il verbo "to see" (vedere) si pronunciava in una maniera simile a "sea" (mare).

Infine, per quanto gli inglesi ( e non solo loro) snobbino la pronuncia americana, paradossalmente questa e' la cosa piu' vicina che abbiamo all'inglese elisabettiano.

Questo perche' dopo l'arrivo dei coloni inglesi in Virginia, l'America rimase sostanzialmente isolata dalla madrepatria, e nonostante gli enormi cambiamenti verificatisi nell'inglese americano, questo conserva ancora una traccia dell'inglese del Bardo.

Tipo il participio passato di "get", che in inglese britannico e' "got", ma in American English e' ancora "gotten", come nell'Old English.

Al largo della costa del Massacussets e del Maine esistono alcune piccole isole e comunita', dove a parere degli esperti - e non a mio parere - si parla un dialetto che e' molto simile all'inglese che parlavano Shakespeare e Christopher Marlowe nei peggio postriboli di Southwark (pronunciato "sadok" ) a sud di Londra.

Bel post supergilli: dio bono, il Bardo e' inarrivabile.

Gillipixel ha detto...

@->Yossarian: ti ringrazio a lot per le tue preziose integrazioni, Yoss :-) la bellezza particolare di "methinks" per me è data dalla fusione di pronome e verbo...in questo c'è una certa affinità con il nostro italiano aulico, che abbondava di sembrommi, apparvemi, ecc...ma qui è diverso, non so perchè, ma methinks ha un qualcosa di linguisticamente magico che manca alle forme italiane simili...sarà forse colpa della valanga di rock'n roll che abbiamo bevuto da bambini insieme al latte, che ci fa sembrare ogni paroletta inglese carica di suoni e di sensi speciali? :-)
Nel frattempo sto continuando la mia avventura di approfondimento fra le delizie del Bardo :-)
Volendo indicare un paragone di goduria linguistica simile, ma nel nostro caro italiano, direi il Decamerone...quello è delizia pura per i palati lingistici più golosastri :-)
Ciao, grazie :-)

farlocca farlocchissima ha detto...

Va detto che forse dovresti provare a tradurre in dialetto, già in reomanesco un "me crede" potrebbe andare e sono certa che in romagnolo verrebbe anche meglio :-)

falecius ha detto...

C'è da dire, però, che con Shakspeare è facile dire così. Ho appena letto "the Tempest" e no, non è possibile rendere la bellezza dell'originale; specie quando si tratta di versi, di fondo c'è una musicalità della lingua che non sarà mai trasponibile.
In linea di principio, che una traduzione possa essere "più bella dell'originale" non è da escludersi, e forse tanto più in poesia, dove, in effeti, la poesia tradotta è di fatto un'altra poesia.

(a proposito di dialetti, al liceo tradussi in marchigiano alcune cose di Plauto; l'effetto era notevole).

Gillipixel ha detto...

@->Farly: mi hai dato uno spunto al quale non avevo pensato, Farly :-) in effetti, ora che ci penso, nel mio dialetto c'è una paroluzza che sta per "mi sembra" che è assolutamente unica e non rendibile con un corrispettivo italiano degno, irrimediabilmente congelata nella bellezza dialettale, quindi...
L'espressione è "...a m'é indivis...", letteralemtne sarebbe "...mi è indiviso...", ma in italiano non significa più niente...ah, la bellezza del dialetto :-)
oeraccu, dice blogspot, citando un famoso piatto sardo a base di cinghialetto maleducato :-D
Bacini vernacolari :-)

Gillipixel ha detto...

@->Falecius: ammetto di aver giocato facile con il Bardo, Falecius :-)
concordo anche sul fatto che una buona traduzione può competere alla grande con l'originale...infatti il mistero dell'inarrivabilità fra due lingue, di cui parlavo, può andare nelle due direzioni...ad esempio, mi viene in mente l'ottima traduzione di The catcher in the rye, che in italiano secondo me è quasi un altro libro, dal punto di vista della coloritura narrativa...
Sarebbe bello se pubblicassi sul tuo blog quelle traduzioni di Plauto in marchigiano :-) Spero di vederle prossimamente :-)
Grazie della visita, Dott., sempre molto gradita :-)
Ciao :-)

falecius ha detto...

Dovrei ritrovarle, quelle versioni, sono perse tra le mie vecchie carte.
Mi ricordo un passaggio, dove Plauto parla del rubare non so più quali animali sacri; lo rendemmo, piuttosto liberamente, come "frecà lu porcu de lu prete quanno sta a di' messa" ("rubare il maiale del prete mentre dice la messa").
Ce n'erano anche alcune, sempre in dialetto, della "Mandragora" di Machiavelli, che erano forse superiori all'orginale quanto a comicità.

Gillipixel ha detto...

@->Falecius: beh, speriamo che qualche giorno saltino fuori i tuoi vecchi fogli, Dott...già il breve accenno che hai riportato era molto divertente :-)
Plauto o altri autori comici del passato, quando si fanno (anche se confesso di ricordare presocchè nulla) vengono presentati in maniera troppo paludata o pall-udata :-)
La tua versione marchigiana la immagino invece rinfrescata proprio dall'immediatezza del dialetto, e quindi più spontanea...se saltassero fuori quelle antiche carte, non farci mancare il piacere di leggerle :-)
Ciao, grazie :-)