Una piantina di camomilla ha fatto capolino nella crepa fra muro e marciapiede della vetusta casa. La camomilla, qui nei paraggi, per me è un ricordo di bambino.
Qualcuno l'avrà seminata, tanti anni fa. Oppure l'ha portata il vento o un uccellino. Quello che so è che ce n'era parecchia, allora. Mi divertivo ad associare le piantine viste intorno a casa con l'immagine riportata sulle scatolette di camomilla, nella credenza in cucina. Oppure con i filmati di certe pubblicità in bianco e nero viste alla tele (Filtrofiore Bonomelli, camomilla Montania).
E immaginavo una qualche vecchietta o un antico nonno del passato, che aveva riposto i semi nel terreno intorno a casa, magari nella speranza di preparare qualche tazza di un suo infuso casalingo.
Non sono mai stato un bevitore di camomilla, lo confesso. Se devo dirla tutta, fin da piccolo, ho sempre preferito magari un goccio di rosso (nelle giuste dosi, sempre). Ma la camomilla mi stava simpatica già da allora. Primo per il suo ricordare l'assopimento, il favorire stati d'animo placidi e rilassati. E inoltre anche perché, per l'appunto, era un fiore che andava in tv senza tanto montarsi la testa, continuando a concedere la sua familiarità anche nel nostro cortile.
I fiori poi s'inoltrano in una loro tenera caparbietà. Sembrano fragili, danno l'impressione di poter durare il volgere di una stagione e dopo seccarsi, sparire. Invece si trasmettono in mille modi e portano con sé il ricordo delle persone che non ci sono più.
A costo di ritagliarsi uno spazio improbabile in una angusta fessura. La loro grazia è insieme potenza. Volontà di esserci, che un po' spaventa e tanto affascina anche.
E il bugnato dello zoccolo di cemento sul muro diventa uno sfondo dai tratti appropriatamente lunari, adatto a questa caparbietà vitalistica esemplare.
Una forza che non a caso è inimmaginabile, se non unita a qualche idea di intervento dal cielo. Un'energia vegetale sotterranea, sempre presente e pronta a manifestarsi nelle fessure che sfuggono al controllo temporale dell'uomo. Ancor più strana da immaginare, se associata a una piantina solitamente evocatrice di calma e serenità tiepide, indotte dai familiari vapori dei suoi infusi.
Varie volte ho provato a capire perché si scrive, o più in generale perché "si fa arte".
Se si osserva l'evoluzione che queste due "forme espressive" hanno avuto nella modernità, i termini della questione si delineano forse meglio. L'arte moderna e in particolare la scrittura hanno sempre più cercato di dire l'indicibile. Basta pensare all'Ulisse di Joyce, ai reticoli di Mondrian, a "Infinite jest" di David Foster Wallace, ai dripping painting di Jackson Pollock.
L'uomo reca dentro di sé il fardello di un mistero immenso. Questo onere interiore è troppo grande da poter essere sopportato e portato da un individuo solo.
Con un processo al tempo stesso di gioia, fatica e dolore, l'uomo sente la necessità di condividere quelle profondità così intollerabilmente radicate, di farle affiorare, di portarle a galla, per poterne diluire la devastante potenza, grazie alla condivisione con altri uomini.
Se l'arte e certo tipo di scrivere moderni sono oscuri, complessi, ermetici, lo si deve a questo tentativo di voler alleviare la prigionia del proprio sentire più intraducibile.
Chissà come sarebbe un mondo nel quale tutti gli individui potessero mettere in comune il proprio nucleo essenziale più incomunicabile. L'umanità diverrebbe un unico esteso individuo vibrante d'amore. Non ci sarebbe forse più bisogno degli sforzi privati degli amanti, di compenetrarsi a vicenda, scoprendo alla fine sullo sfondo sempre un inafferrabile appagamento. Conosceremmo la completezza, perché rispecchiandoci ciascuno nel profondo, nell'abisso degli altri, non soffriremmo le vertigini del mistero causate dalla solitudine dell'incomunicabile.
Ben lontani tuttavia dal riuscire a realizzare un simile scenario "iper-reale", viviamo forse tempi quanto mai estranei rispetto ad esso. Sempre più peso interiore viene caricato sulle spalle dell'individuo. E quando la capacità di reggere la pressione va oltre il normale grado di sopportazione del singolo, trovando egli con difficoltà spalle altrui vicine in grado di porgere sollievo, non di rado si hanno strappi critici (leggi: rifugio smodato nell'illusione delle droghe, violenze domestiche di ogni tipo, forme di "analfabetismo sentimentale", e così via tristemente enumerando).
Un po' con sorpresa e un po' no, andando dietro a pensieri artistici, ci siamo ritrovati fra le mani temi sociali. Anche questo dunque l'arte ci insegna: tutti hanno bisogno di portare a galla la propria essenza più pesante e intollerabile, nessuno la può portare dentro con le sole sue forze.
Ci sono certi giorni che mi fa ancora male. E oggi è uno di quelli. Aver assaporato insieme soltanto bellezza (seppur in occasioni fugaci) e proprio per questo non capire come mai sia tutto svaporato via.
Magari si trattava solo di una grande illusione, ma non è forse così che il mondo va avanti?
<<..."...Vita e verità non possono coesistere...". Questo è l'annuncio di Schopenhauer...>>. Giochiamo sempre in difesa, abbiamo bisogno di velarci di continuo gli occhi di illusioni nuove. Non per disonestà, non per incoerenza o auto-inganno. Ma solo per sopravvivere.
Cosa importa se non era perfetto, dal momento che mi aiutava a sorridere a ogni giorno nuovo? Non valeva forse già solo questo, le mille perfezioni delle quali alla fine non mi importa assolutamente nulla?
Non era bello esser riusciti a sfiorarsi così nel profondo? Non bastava la forza di questa cosa a farci sopportare gli stridii di tutto quanto competeva all'esteriore disbrigo del quotidiano?
Inutili domande, a questo punto. La sola risposta è che per oggi mi fa ancora male. Inutile scrivere anche tutte queste inutilità che nessuno potrà capire. Ma vengono certi momenti che tenere dentro fa ancora più male.
Soprattutto quando si realizza che in questa fottuta, adorata città, sarà meglio venirci il meno possibile, ormai, dove mi strugge la ciabatta di un vecchio, un'aiuola riarsa sotto il sole, e su ogni superficie si posa la tenerezza sconfinata e devastante dell'incondivisibilità con la persona che vedi sfuggire da tutte le cose, lasciandole insipide di bellezza.
La scrittura è un'attività che induce a mettere fortemente in dubbio l'affidabilità del rapporto causa-effetto fra le cose. Per scrivere bene, non c'è una ricetta preparatoria assicurata.
Di sicuro sono indispensabili tanti presupposti dettati dalla ragionevolezza: per scrivere qualcosa di buono, una storia, un bel pensiero, bisogna innanzitutto leggere parecchio, essere curiosi, documentarsi, studiare, applicarsi con costanza, provare anche quando sembra di non aver nulla da dire.
Ma ciò che rende una scrittura davvero buona (parlo magari di un brano che sappia stupire, emozionare, portatore di una carica e una grazia poetiche non comuni) a volte sembra piovere proprio dal cielo. Nel caso di frasi e composizioni particolarmente felici, si ha quasi l'idea che esse abbiano preso la parola in autonomia, abbiano parlato per forza propria, attraverso la voce dell'autore.
In virtù di tali riflessioni, ecco allora che, da scribacchino amatoriale, mi pare di aver individuato una serie di dimensioni propedeutiche, di attività feconde, atte a favorire lo sbocciare di buone frasi sulla pagina.
Innanzitutto, per scrivere bene bisogna guardare spesso il soffitto. Assorti in questa pratica, i pensieri si depurano, l'ansia si diluisce, l'attesa della buona idea si fa meno assillante, perché il soffitto traspira la calma della sua uniformità, infonde la pioggia asciutta della sua aura neutrale, riconduce a un ordine piano delle cose.
Inoltre, giova entrare in una visione del mondo mutuata dall'atteggiamento esistenziale felino. Il gatto non si sa mai bene cosa sia in procinto di fare. Questo, pur facendo alla fine sempre le stesse cose. Ma il bello è che, quando un gatto fa una cosa, la quale, anche se a sorpresa, si rivela una classica movenza da gatto, nondimeno lui ci sa stupire ogni volta.
Qualcosa di simile capita con la scrittura. Le parole utilizzabili sono tantissime, ma di fatto limitate, eppure sappiamo che esiste sempre l'opportunità di una frase capace di meravigliare il lettore.
Ma quella frase non uscirà nemmeno in mille anni, se pretendiamo di forzarla, di farla capitare, date certe condizioni prestabilite (è lo stesso che voler far fare a un gatto, ciò che "noi" vogliamo). Queste pre-condizioni precise non esistono: lo scrivere si nutre solo di prodromi imprecisi e che apparentemente non c'entrano nulla.
Per ben scrivere, occorre dunque anche guardare spesso, oltre che il soffitto, anche fuori dalla finestra (e questo già lo raccomandava il grande Joseph Conrad). Aiuta poi molto ammirare i fiori che crescono (come da lezione di Simon & Garfunkel nella loro canzone"Feeling groovy"). Occorre ascoltare ciò che hanno da dirci i gesti delle persone e il linguaggio muto delle cose. Per stimolare la grazia scrittoria, giova dormire molto e possibilmente sognare in abbondanza. Serve saper leggere la luce dell'aria, come le sue sfumature si mutano l'una dentro l'altra senza soluzione di continuità. Serve soprattutto saper ascoltare cos'ha da dirci il buio, da sempre fondamentale maestro di ogni scrittore.
Una buona scrittura insomma (perlomeno per quanto riguarda i suoi aspetti più incalcolabili e non progettabili) nasce quando lo scrittore riesce a sedurre il caso e il mistero, riuscendo a farci l'amore.
Ieri è successo uno sconquasso socio-politico-economico di portata storica e io ho parlato di lucertole. Lo so, la si potrebbe prendere come imperdonabile superficialità. Ma assicuro tutti che così non è.
Non crediate che non abbia vissuto con apprensione e preoccupata sorpresa gli eventi successi. Ho seguito le notizie, ho visto trasmissioni alla tele in merito, ho letto opinioni su internet, articoli.
Sono stato anche tentato di scrivere un paio di battute "urticanti", qualche buona frase di sarcasmo risentito. Ma poi ci ho ripensato, perché alla fine solo di quello, per l'appunto, si sarebbe trattato: di risentimento, inutile e gratuito.
Una cosa da dire è che non mi sento sufficientemente preparato in materia per poter capire bene tutti i risvolti di quanto è accaduto. Allora mi affido un po' a un tipo di considerazioni che mi piace spesso fare e che si possono catalogare fra quelle di natura universal-filosofica.
Per il poco che ne so, per quello che posso concludere dopo aver ascoltato e letto (certo, non a sufficienza, ma un po' l'ho fatto), i britannici hanno fatto una pessima scelta (e vi chiedo di rendermi merito dell'uso di un aplomb molto british, che se dovessi dare retta agli impulsi più diretti, sarebbero soltanto insulti su insulti).
Quello che si è verificato sembra l'esito di una serie di non-sensi epocali, dei quali i nostri lontani pronipotini potranno meravigliarsi con non pochi sorrisi, leggendoli un giorno sui libri di storia. Ma per il momento la faccenda è piuttosto drammatica e ce la dobbiamo sciroppare noi. Ci è toccata.
Non ci sarebbe spiegazione logica plausibile per come sono andate le cose, se non ricercandola nell'imbufalimento mentale derivato dalla disinformazione, dalla dittatura "luogo-comunista", dall'elevamento illusorio e miope del discorso da bar al grado di un ragionamento degno di rispetto.
Però (e qui entra in gioco il fattore filosofico), per non perdere del tutto le speranze, per non abbattersi completamente, voglio pensare una cosa che magari non avrà un'immediata verificabilità logica, ma che può aiutare a profilare una certa prospettiva degli eventi (per quanto al momento ancora del tutto nebulosa e di là da venire).
La storia ha dimostrato più volte di non seguire percorsi lineari. Momenti che sembravano inaugurare nuove albe radiose per l'umanità, si sono rivelati forieri di conseguenze negative, e viceversa.
L'esempio più clamoroso ce lo offre il tentativo di realizzazione in Terra del cosiddetto "socialismo reale": se ci fate caso, sia il suo inizio, sia la sua fine, hanno largamente sbaragliato le previsioni. Il Comunismo ha seminato morte e dolore quando è stato introdotto, ma, con modalità diverse e inattese, anche quando è stato archiviato.
Insomma, il succo del discorso è che la storia va avanti anche (e forse soprattutto) a colpi di follia o, se vogliamo essere meno drastici, di eventi aleatori. E una scelta che sul momento appare la più demenziale possibile, magari un giorno potrà portare a conseguenze non così disdicevoli. Fermo restando che affidarsi a umori imprecisati rimane un errore da rifuggire con ogni forza del pensiero (in altre parole, stanti tutte le opzioni a disposizione di una mente ragionevole, gli inglesi "pro uscita" le hanno scartate tutte).
Detto ciò, mi voglio togliere lo sfizio di chiudere con una delle battute grevi che avrei sparato se mi fossi affidato solo alla reazione d'istinto. E scusate tanto, cari inglesi, ma ve la volete prendere tutta e solo voi la soddisfazione di ragionare col culo? Eh no, eh...lasciatene un po' anche a me.
Allora, gira voce che, nei tre mesi utili per formalizzare le dimissioni, il premier Cameron (per chiudere proprio col botto) indirà un nuovo referendum: se vinceranno gli "stand still", nulla cambierà, ma se prevarranno i "turn", tutte le cittadine britanniche saranno obbligate a girarsela in orizzontale. Insomma, dopo la Brexit, sarà la volta della "figh-fit".
Se si ha la possibilità di osservare un ambiente che conserva un minimo di caratteristiche naturali, potrà capitare di notare una piccola presenza delicata. Si manifesta con guizzi fugaci, occhiate minimali, grigie serpentine e rapidi fruscii di zampette impercettibili. Sono le imperatrici delle crepe, le impiegate della fessura, le gran crogiolanti solari, le campionesse della fuga ventre a terra: sono le lucertole.
Hanno un qualcosa di straordinario, da tanto sono ordinari, questi mini-sauri formato tascabile. Gli esperti le chiamano Podarcis muralis o lucertole muraiole. Il loro aspetto, al pari di quello dei parenti maggiori della famiglia (tipo lo zio alligatore o il cugino drago di Komodo), è terribile, quasi fatto apposta per incutere timore.
Ma per le lucertole nostrane, il "problema", che le rende anche simpatiche, sono le dimensioni e la fin troppo eccessiva velocità. Hanno sbagliato decisamente misura. Loro magari aspirerebbero a presentarsi con un aspetto un filo minaccioso, ma inevitabilmente riescono al massimo a sfoderare un'aggressività da tenere mascotte dei muri. Sono delle terribili in miniatura, che tradotto nell'alfabeto animale vuol dire delle "simpaticone".
D'altra parte, da qualche tempo, vado sospettando nelle lucertole persino un'indole non solo giocosa, ma addirittura vagamente buffoncella. Ne osservavo un paio piccolette, un giorno: immagino fossero due "cuccioli". E le ho viste fare la cosa più inaspettata. Si inseguivano. Con piccole giravolte, la cacciatrice in andata diventava la braccata di ritorno, e così via, con varie piroette e altre fulminee moine. Non so come mai, ma ho capito che stavano giocando fra loro. Ed è stato un momento di piccola gioiosa scoperta.
Il cuore delle lucertole dev'essere minuscolo, ma al tempo stesso sarà anche un motorino incredibilmente potente che frulla all'impazzata di continuo. Sono sempre agitate, in allerta, sul chi vive. Disegnano ghirigori frettolosi, composizioni dinamiche, equilibrismi sugli spigoli, acrobazie a rasoterra.
E tutte queste figure evanescenti create dai loro incessanti andirivieni, moltiplicate per le centinaia, migliaia, prodotte da ogni esemplare, vanno a formare una grande rete di movenze lucertolesche serpeggianti per ogni dove a loro accessibile e familiare.
Come un'estesa trama di tessuto squamato, un uncinetto di leggiadre movenze ricamate a zampette leggere.
A volte, se te ne trovi una poco distante dai piedi, hai quasi l'impressione che avrebbe voglia di familiarizzare un po'. Sta ferma un attimo, muove la zucchetta triangolare a scatti e ti sbircia di traverso, nel suo tipico modo. Ma poi, basta avvicinarsi un millimetro oltre il suo sensibilissimo raggio di sospettosità, che subito scatta con un classico scodonzolio a fil di marciapiede.
A partire da tutti questi modi di fare, la lucertolità generalizzata diventa una piccola, ma insieme vasta presenza discreta. Ed è bello sapere che ci sono e fanno scorrere fra noi un'energia gentile, insieme preistorica e ampiamente civilizzata (perché loro, con geometrico istinto, non si scomodano a vivere se non lungo i muri).
Sono soggetti non tanto facili, fotograficamente parlando, le lucertole. Ma nemmeno impossibili. Gli scatti che vi presento qui sono l'esito di una mia recente seduta di "lizard watching".
La lucertola, col suo aspetto insieme grazioso e bonariamente orrifico, è dunque anche una buona "modella" da ritrarre. Sempre che pure lei sia d'accordo, ovviamente.
Sarebbe bello che tutte le cose pensate durante la vita, tutti gli istanti vissuti, tutte le emozioni provate, tutto di tutto insomma del nostro "lavorio interiore", venisse registrato su una sorta di contenitore multisensoriale, consultabile poi in seguito a piacimento.
Sarebbe bello. Oppure, sarebbe brutto, a seconda dei punti di vista.
Qualcosa del genere esiste già, ma non è di agevole utilizzo. Viene chiamato inconscio e per consultarlo sono necessarie modalità alquanto complesse, che poi non danno mai la sicurezza circa i dati ricavati dalla sua "lettura". Oppure, ci si arriva con altre modalità "artigianali", tipo i sogni, ma anche qui rimane tutto molto sul vago.
No, quello di cui parlo io sarebbe una sorta di "scatola rosa", sulla falsariga di quella "nera" degli aeroplani. Naturalmente, la sua consultazione non verrebbe concessa solo quando ci siamo schiantati contro qualcosa di brutto e duro. La "pink box" sarebbe a disposizione in ogni momento, per andare a rivisitare passaggi fondamentali della vita.
Non si tratterebbe di un dispositivo esterno, una vera e propria scatola. Dovrebbe invece trattarsi di una funzione interna a noi stessi. Quando venisse voglia, non si dovrebbe far altro che pensare: "voglio leggere la scatola rosa", e subito la "modalità lettura" si attiverebbe.
La "scatola rosa" dovrebbe disporre di un motore di ricerca, in modo da poter selezionare un momento della vita, oppure una certa emozione, un sentimento passato, un'idea.
Sarebbe bello, oppure sarebbe brutto, dicevo. Non mi so decidere. Molte variabili potrebbero entrare in gioco.
Innanzitutto, la "scatola rosa" sarebbe dotata della "funzione modale interpersonale"? Ossia, una persona potrebbe leggere anche la "scatola rosa" di un altro? In linea di massima direi di sì, ma solo col consenso del titolare della "scatola rosa" da leggere.
Solo così, credo, ne potrebbero derivare benefici. La sincerità diverrebbe una dote sempre certificabile, l'intimità fra due persone si farebbe estrema, ma tutto ciò solo quando si vuole.
Non mancherebbero però magagne di rimbalzo: chi rifiutasse la lettura, sarebbe sospettato di avere cose da nascondere. Verrebbe poi meno il naturale mistero che fa parte dell'identità di ogni individuo.
Altro punto critico della "scatola rosa": stimolerebbe a dismisura la predilezione dei "passatisti" a crogiolarsi nei ricordi, senza più interessarsi al presente o al futuro. Si formerebbero schiere di "scatola-rosa-dipendenti", perennemente in fase di lettura delle proprie vicissitudini trascorse. Si dovrebbero allora istituire cliniche di disintossicazione da "scatola-rosismo", nelle quali si tenterebbe di convincere gli assistiti che se si ostinassero a non creare più presente, né futuro, non avranno nuove cose da leggere sulla scatola negli anni a venire. Per i più recidivi, si dovrebbero creare magari fondi pensionistici di ricordi integrativi.
Potrebbe anche esplodere un mercato nero di "scatole rosa". "Scatole-rosisti" professionali senza scrupoli caricherebbero le proprie vite delle esperienze più estreme e sensazionali, da rivendere a peso d'oro a chi per pigrizia non si era premurato di fare una buona scorta di ricordi per la vecchiaia.
Questa "scatola rosa" è insomma un apparecchio ancora troppo precario, per poter passare subito al suo utilizzo immediato. Aspettiamo allora che gli studiosi sviscerino meglio tutto i pro e i contro, e nel frattempo accontentiamoci di romperci ordinariamente le scatole, come abbiamo sempre fatto finora, coi mezzi tradizionali.
Per questa nuova puntata della rubrichetta “Le muse di Kika van per pensieri”, Kika ci ripropone ancora un’opera del pittore visto la scorsa settimana, Eugene De Blaas. Parliamo oggi del dipinto intitolato “L’acquaiola”, del 1908.
Lascio da parte eventuali considerazioni critiche (che vista l’importanza relativa di questo autore, non darebbero adito a grandi discorsi e disamine), e mi affido ancora al metodo di analisi più diretto e spontaneo, ossia la pura osservazione, lasciando spazio alle impressioni immediate.
Come già successo con le due leggiadre raccoglitrici di conchiglie, anche in questo caso s’impone subito il dato della fascinazione femminile. Se dovessi dare una definizione di quest’opera, direi che si tratta di un “quadro tattile”. Tanti sono gli elementi, infatti, utilizzati come “dispositivi” visivi, atti a sollecitare sensazioni di contatto fisico. La variazione delle superfici è molto ricco: dal liscio traslucido del paiolo di rame e della brocca di vetro, alla scabrosità a tratti incisa nel profondo del muretto; dalla levigatezza dei piani (di pietra o marmo) sui quali la ragazza poggia i piedi e le braccia, alla “ondosità” del panneggio della veste.
Ma poi, sono proprio i punti di contatto del corpo della deliziosa procacciatrice d’acqua, con il suolo e col muretto, che sembrano esaltati dalla composizione. Le braccia e i piedi nudi posati sul selciato e sul parapetto, la languida posa delle mani, abbandonate mollemente, lo sguardo sornione e un po’ sfacciato, gli occhi socchiusi con sufficienza: sono tutti elementi che contribuiscono alla sensualità generale della scena. Tutti questi elementi, ovviamente, sono i pregi, ma anche i limiti dell’opera, che denuncia in questo modo un’eccessiva ricerca dell’effetto fine a se stesso.
Nella mia indagine da detective fisiognomico, ho scovato tre volti. Le somiglianze sono un po’ vaghe, ma tutte messe insieme, hanno il loro perché.
Ecco il primo volto:
Si tratta di una donna di spettacolo, presentatrice televisiva di diverse trasmissioni di alcuni anni fa: Melba Ruffo.
A seguire, ecco la seconda somiglianza:
Questa è la fascinosa attrice napoletana Luisa Ranieri.
E infine, chiudo con l’ultimo volto, già protagonista di altre puntate, ma che mi sembrava adatto anche per l’attuale soggetto:
E’ ancora un’attrice, stavolta l’americana Mary Louise Parker.
Si conclude così questa puntata express della nostra rubrichetta. E ora sul blog di Kika, possiamo andare a scoprire come la nostra maghetta della moda ha rivestito la conturbante acquaiola di De Blaas.
giovedì 23 giugno 2016
"Un pensiero al giorno"
88 - "Happiness is a warm fun"
Mi è venuto da chiedermi quale potrebbe essere indicato come tema dei temi di tutta la letteratura mondiale di ogni tempo.
Di certo una domanda tanto immensa da suonare abbastanza assurda, proprio per la sua vastità. Ma se in qualche modo dovessi rispondere, indicherei, come argomento portante di ogni letteratura, questo: la felicità è uno stato troppo intenso da poter essere sopportato.
Potrà suonare come un paradosso, ma non va dimenticato che l'essenza stessa del vivere è fondata su paradossi.
Ognuno vuole essere felice a questo mondo. Ma al tempo stesso, ognuno capisce anche come la felicità possa essere soltanto costruita per fasi momentanee.
Questo non significa che ci si augura di stare male...per carità, sgombriamo assolutamente il campo dal possibile equivoco. Tutti aspiriamo alla serenità, a vivere momenti belli, alla piacevolezza. Però ci sembra quasi inimmaginabile un ipotetico stato di felicità continuativo, pieno, ininterrotto e immutabile.
A volte, scherzando, si dice che se ci facessero scegliere quale delle cantiche della Divina Commedia poter visitare, eviteremmo di sicuro il Paradiso, perché lì non succede mai nulla.
Al di là della facezia pura, in essa è contenuto anche un sentire effettivo, che a che fare con quanto accennato sopra. Una felicità completa, senza una falla o una pur minima pecca, va al di là della nostra stessa capacità di concettualizzarla. Così come fatichiamo a concepire il "nulla" puro (pur avendone una vaga intuizione), stentiamo a concepire la felicità assoluta.
Allora, se ci fate caso, le storie raccontate da ogni autore di ogni epoca, a partire da Omero, passando per Ariosto, Cervantes, Tolstoj, Flaubert, Kundera, Murakami e così via, parlano sì di tantissimi temi e sfumature care all'animo umano, ma fondamentalmente parlano soprattutto di quanto la felicità possa realizzarsi solamente ad un grado di somma imperfezione.
Ecco dunque che, cercando una piccola frase come possibile titolo per queste brevi riflessioni, mi è parso indicato e curioso parafrasare le parole di una bellissima canzone dei Beatles (segnatamente, scritta da John Lennon, intorno al 1967-68). "...Happiness is a warm gun..." dice la canzone, prendendo ironicamente a prestito uno slogan a favore della vendita di armi: "...Felicità è una pistola calda...", con riferimento a un colpo appena esploso.
Ai miei fini, la frase è invece diventata: "...Happiness is a warm fun...", ossia "...Felicità è un tiepido divertimento...", a sottolineare l'incorreggibile imperfezione dell'essere felici.
mercoledì 22 giugno 2016
"Un pensiero al giorno"
87 - "Le storie al Erosicoto"
Fra gli Scleroti, una popolazione che colonizzò l'altopiano di Zebonia cinque secoli prima delle guerre scoppiate per il controllo sul commercio del "Fieno furbetto", era usanza celebrare ogni anno una cerimonia, conosciuta col nome di "Oi boiòn ze Minchiardòn", che si potrebbe tradurre come "La festa del minchiettone".
Durante i giorni dedicati a tale celebrazione, tutti gli adulti maschi erano invitati a incidere una frase intelligente, su una tavoletta di cera, siglandola sotto col proprio nome. Per gentilezza e rispetto, dalla prima parte del gioco erano escluse le donne, che però potevano ampiamente partecipare, e con gran divertimento, ai momenti conclusivi, come vedremo.
Ogni scrivente sulla cera depositava la sua frase in una tenda. Quando ognuno aveva scritto, un banditore, stando sull'ingresso della tenda, leggeva a voce alta ogni frase a tutto il popolo riunito in piazza. Ascoltando una sentenza dopo l'altra, la gente finiva per acclamare il "gran cretino sacrificale", il quale altri non era che l'autore della frase giudicata più stupida di tutte.
A questo punto, costui doveva stabilirsi per tre giorni e tre notti nella stessa tenda (ormai svuotata dalle tavolette) e rimanere a disposizione di chiunque avesse avuto voglia di andare da lui a raccontare qualcosa, a insegnargli una sua idea, a sostenere opinioni, ad assillarlo con sue ossessioni, a insultarlo, a sfogarsi, e così via.
Tutti potevano entrare nella tenda, e parlare al cretino, uomini, donne, bambini, vecchi, purché fosse una persona per volta. Il cretino doveva stare ad ascoltare e basta, accettando ogni trattamento a parole, ed eventualmente dicendo qualcosa solo se interpellato.
Questa festa, all'apparenza bizzarra, ebbe per lungo tempo una sua funzione di calmiere sociale. La veste di "gran cretino sacrificale" (una tunica rossa, che lasciava il sedere scoperto) poteva infatti essere indossata anche dai notabili fra gli Scleroti. Per scegliere la frase più stupida era decisivo il voto del popolo, che poteva giudicare malamente affermazioni scritte anche dai più importanti cittadini.
La cerimonia prevedeva poi una regola di ricompensa. Il cretino di turno aveva la possibilità di giocarsi tre frasi aggiuntive, con altrettante leggiadre ragazze o signore, che fossero andate a visitarlo nella tenda. Se l'ospite femminile avesse apprezzato la frase in questione, esprimendolo chiaramente al cretino, secondo il cerimoniale della festa, era anche segno che la donna acconsentiva a giacersi col suddetto padrone temporaneo della tenda.
In quei casi, con sommo diletto dei due, la fortunata prescelta (la quale si era in realtà auto-prescelta) si premurava di sfilare la tunica al cretino, pronunciando, con un gran sorriso sulle labbra, la frase di rito prevista dal cerimoniale: "...E chiamalo cretino!...".
L'uomo si ritrovava così completamente denudato di fronte a lei, la quale, prima di passare a fare ciò che non stava ormai più nella pelle dalla voglia di fare, provvedeva a esporre fuori dalla tenda la tunica rossa, curandosi che l'apertura sul didietro fosse rivolta verso la strada, con dentro in bella mostra un culo di legno. In questo modo, chiunque fosse passato davanti alla tenda, avrebbe dovuto pronunciare la relativa formula d'invidia: "...Ascolta un cretino!...".
Come si può capire insomma, il titolo di cretino era nello stesso tempo temuto e ambito dagli uomini di quel popolo, e fino a quando "La festa del minchiettone" rimase un'usanza cara agli Scleroti, regnò fra loro la concordia.
Fu la scoperta del "Fieno furbetto" a guastare ogni cosa. Gli Scleroti si accorsero che una certa erba, bollita e assunta sotto forma di decotto, aveva la proprietà di donare una grande sensazione di euforia. Passato l'effetto piacevole, tuttavia, sempre quell'erba trasformava il suo assuntore nel più insopportabile saputello del mondo. E questa fu in pratica la fine dell'epoca felice degli Scleroti, che un tempo vivevano benissimo con un cretino all'anno per tre giorni, ma poi non gliene bastarono più neanche mille per ogni giorno dell'anno.
A questo mondo, mi sono sentito e mi sento spesso inutile. Capita nei momenti di sconforto, nei quali si stenta a inquadrare se stessi dentro un disegno generale, e la propria persona sembra fuori luogo in qualunque dimensione.
Però col tempo credo di aver imparato che forse non ha senso alcuno lo stesso atto di interrogarsi riguardo alla propria utilità. A mio avviso, in fondo, un'idea del genere si nasconde anche nel significato più profondo delle parole di Gesù, quando ammoniva: "...E perché vi affannate per il vestito? Osservate come crescono i gigli del campo: non lavorano e non filano. Eppure io vi dico che neanche Salomone, con tutta la sua gloria, vestiva come uno di loro...".
Certo, queste parole erano prima di tutto un invito ad affidarsi alle mani della Provvidenza, che qualcosa di buono, della nostra vita, in qualche modo "sarebbe stato". Ma io ci leggo anche sfumature più sottili. Gesù sembra dirci innanzitutto: non preoccuparti per cose troppo più grandi di te, fai il tuo dovere, "ascolta" la realtà, in essa c'è sicuramente già scritto come trovare anche il tuo posto.
Utile o inutile, adeguato o no, diventano categorie senza senso, in questa prospettiva. Meglio dunque parlare di "pienezza" più o meno raggiunta, oppure più o meno mancata. L'essere nel quale siamo immersi vibra di una sua frequenza peculiare. Quello che conta è saper riconoscere tale vibrazione. Questo riconoscimento avviene solo in parte percorrendo sentieri del ragionamento. Per un altrettanto importante porzione richiede invece sensibilità ed empatia.
Intervengono categorie poco classificabili in termini espliciti e di previsione. È un imparare al quale si addiviene nel corso del suo stesso farsi. L'esperienza che se ne fa è cruciale, si acquisisce attraverso una serie di passaggi che, dantescamente, "...intender non li può chi non li prova...".
Ecco dunque il senso più bello di quelle frasi di Gesù, per me: andare sempre oltre la preoccupazione spicciola, ridimensionare l'importanza di concetti come utile e inutile. Pur rimanendo essi fondamentali per tanti aspetti, non possono mai essere "esaustivi". Per dirla in termini logico-matematici, sono necessari, ma non sufficienti. Bisogna fare i conti con l'utile, ma poi trovare la forza e la leggerezza insieme, che ci consentono di portarci oltre, laddove alberga la completezza verso la quale davvero la nostra essenza di sente chiamata.
L'omino dell'ospizio mi salutava sempre. Non so bene come fu che capitò a terminare lì i suoi anni. Era ancora abbastanza giovane, ma non aveva più nessuno al mondo. E se anche avesse avuto qualcuno, sarebbe stato quasi uguale, perché lui ti guardava con quello sguardo lontano, che sembrava andare a prendere sul confine più remoto di una prateria sperduta, ti sorrideva con una gentilezza grande, ma un secondo dopo, credo non sapesse già più chi eri.
Pensando a lui, fra di me lo chiamavo il baffetto dell'ospizio. Avevo iniziato a conoscerlo quelle rade occasioni in cui ero entrato in quel compassionevole ricettacolo per nonnetti dimenticati, a raccogliere notiziole da giornalista di provincia. Una piccola festa per i vecchietti, il compleanno di una nonnina centenaria e simili curiosità da gazzettino ultra marginale.
L'omino stava quasi sempre sulla porta a schiacciare il bottone di apertura, nel caso vedesse un ospite. Ti accoglieva con quei baffetti neri a spazzolino da denti, gli occhiali spessi come due culi di bottiglia, posati su un nasone che faceva simpatia, e dietro le lenti, il suo sguardo sorridente di toposa gentilezza.
Salutava con gran professionalità da maggiordomo un po' sdrucito, ma poi si perdeva a inseguire i suoi pensieri, che chissà dove si andavano a smarrire. Di sicuro in qualche posto che conosceva solo lui.
Da allora, ogni volta che passavo in bici davanti all'ospizio e lo scorgevo di vedetta sul piccolo terrazzino affacciato sulla strada, fra le fronde dei grossi tigli, mi sventolava la mano in calorosi saluti. Il bello era che se mi capitava di passare anche dieci volte al giorno, immagino lui credesse di salutare dieci persone diverse.
In qualche modo, il baffetto dell'ospizio faceva così un'opera di utilità sociale. Non ti permetteva di annoiarti della tua esistenza. Se è vera (come credo sia più che vera) l'affermazione di Umberto Eco, secondo la quale chi legge libri vive tante vite diverse, era vero pure che passando davanti al baffetto dell'ospizio, ti sentivi ogni volta un'altra persona, col gran senso di rinnovamento esistenziale che l'impressione ti metteva dentro.
In questo modo svagato, il baffetto dell'ospizio passava le sue giornate, che erano un po' tutte una lo specchio dell'altra. A vederlo, ti sembrava in forma, una mascotte ideale del posto che lo ospitava. Sempre cordiale e in apparenza presente. Ma credo che per lui l'orizzonte mutasse di continuo, anche se la cosa (almeno in apparenza) non gli pesava più di tanto.
Seppi poi da una ragazza impiegata nella struttura, che il baffetto dell'ospizio era un lettore dei fumetti di Tex Willer e questo me lo rese ancor più simpatico. Non so bene cosa ci capisse, col suo nasone ficcato fra le pagine delle avventure del ranger texano.
Ma da quella volta, presi a immaginare anche che il baffetto dell'ospizio non disdegnasse nemmeno di lanciare agevoli occhiate ai culi delle infermiere che si trovava a ronzare attorno durante le giornate. Va beh, dopo un secondo avrà subito scordato cosa significasse bearsi lo sguardo con la visione di un sedere di donna, ma non importava molto. Le infermiere stesse avrebbero dovuto essergli grate, per il rinnovo identitario che il baffetto garantiva con costanza anche ai loro fondoschiena. Per lui ogni volta erano altri culi, e poi altri, e così via.
Ero quasi convinto che il baffetto dell'ospizio sarebbe durato per sempre, tanto era divenuta familiare la sua figura. L'ingresso dell'ospizio era impensabile senza di lui. Ma poi il tempo passò, i miei pensieri presero la strada di tante altre occupazioni, fino al giorno in cui venni a sapere che il baffetto se n'era andato.
Mi dispiacque tanto pensare che non mi sarei più rinnovato l'animo sotto la corrente rigenerante di un suo candido saluto. Ma ancora oggi, ho ben presente quel suo sorriso affabile da topone portinaio, benché perlopiù muto. E sono contento di aver incrociato con lui alcuni attimi, di essermi sentito tante persone diverse, filtrate dal suo delicato sguardo moltiplicatore di umanità.
È inutile che giriamo tanto intorno al discorso. Chi vuol essere onesto e coerente con se stesso, lo deve ammettere: dormire è una delle attività più belle del mondo.
Col tempo però ci si accorge che le modalità del ronfare e la qualità del sonno, mutano nelle loro caratteristiche. Cambiano aspetto, diventano un'altra cosa.
Si vede che proveniamo dal regno del sonno, individuabile grosso modo col periodo trascorso nella pancia della mamma. Perché più ci si trova vicini a esso come età, più si ha familiarità col dormire. Ricordo che da bambino e da ragazzo, potevo quasi dormire a comando. Se ne avevo bisogno, mi mettevo lì, ovunque mi trovassi, anche con rumori intorno, nel caso, e mi addormentavo.
Soprattutto di ritorno dal campo sportivo, dopo un'estenuante partitella a calcio di tre ore o più. Ho fatto i sonni più meravigliosi, date simili premesse. Era un dormire fragrante, pieno, pastoso, dolcemente vischioso. Magari in autunno, che fuori faceva già freschino, con ancora addosso tuta e maglione usati a giocare, sul divano, nel tepore ammaliante della stufa. Un'ora di sonno prima di cena, e mi svegliavo con l'impressione di essermi addormentato un secolo prima.
Forse, si conserva una "capacità idilliaca" del sonno, fino a quando non ci si rende conto che al mondo esistono anche le levatacce e le ore notturne. Per lungo tempo, queste due nozioni sono mancate totalmente dalla mia consapevolezza. La notte per me era soltanto un batuffolo oscuro, una stanza felpata nella quale ti immergevi verso le dieci di sera e dalla quale uscivi intorno alle otto del mattino, senza sapere assolutamente nulla di cosa ci fosse di mezzo.
Alcuni ricordi di situazioni buffe, ma al tempo stesso irritanti, sono legati alle volte che mi addormentavo davanti alla televisione. Mi succedeva spesso guardando leggendari film classici americani in bianco e nero, magari con quel cattivone di Edward G. Robinson, o fra le gioviali atmosfere imbastite da Danny Kaye. Non perché non fossi affascinato da quei fotogrammi incantati. Tutt'altro: mi ammaliavano invece fin nel profondo delle mie fibre immaginifiche. Ma allora era il sonno a dettar legge. Quando voleva imporsi, c'era poco da fare, del tutto inutile resistere. Il sonno televisivo infantile era una certezza, raramente uscivo vincente dal confronto.
I guai venivano col risveglio forzato a fine film, che inevitabilmente dovevo subire per venir trasbordato a letto. La sensazione provata in quegli attimi era di una complessità assoluta: fastidio e irritazione a mille per aver perso il film e il filo del sonno insieme; auto-rimprovero per l'inettitudine a stare sveglio; fiacchezza fisica oltre la barriera del suono della pigrizia, che alzarsi dal divano pareva sul momento la tredicesima fatica di Ercole; incazzatura verso chi mi aveva svegliato, della quale coglievo anche tutto il non-senso, insufficiente tuttavia a cancellare quel gran soqquadro d'umore che avevo in corpo.
Insomma, anche se poi si continuano a fare sonni sopraffini anche da grandi, non ho più dormito con quella qualità di grado superiore di cui ero capace da bimbo. Da quando ho scoperto che esistono brutture come le alzatacce alle sei, o orari remotissimi e astrusi come le tre di notte (che pure, per altri versi, può essere un bellissimo momento da trascorrere vegliando), niente è più stato uguale.
La corriera per andare a scuola in città era un "microcosmo condensato" viaggiante. Se ripenso ai miei anni del liceo, mi rendo conto di ricordare due esperienze sovrapposte, ma in qualche modo differenziate. C'erano le ore trascorse sui banchi, e le ore di viaggio, un paio circa ogni giorno, tra andata e ritorno a casa, sul corrierone sgangherato di allora.
I tempi e i modi erano questi: sveglia alle 6 e 15, con fantozziano margine utile per prendere la corriera, di passaggio dalla piazza alle 6 e 40.
In quei venticinque minuti, dovevo farci stare dentro: presa di coscienza di essere di nuovo sveglio; recupero psicologico, a volte, da traumatico strascico di sogni agitati o adolescenzial-eroticonturbanti; abluzioni sprint in stile lavaggio felino; vestizione a tempo di record; colazione con la terribile zuppa di caffelatte e pane secco (nell'atavica convinzione di trarne l'energia utile per tutta la mattinata, mentre, dopo ben tre anni, compresi che l'unica cosa che mi dava era soltanto la nausea in corriera); infine, volatone in bici verso la fermata della corriera, dove magicamente arrivavo sempre con cinque minuti di anticipo, buoni per assaporare alcune sane boccate di "tedium vitae" propalato a pieni dialoghi nel buio, dal drappello di pendolari già in attesa del vetusto torpedone.
Tutte queste operazioni, calcolando anche il coordinamento di tempi e spazi con mio fratello, almeno nei primi anni in cui condividemmo quelle mini odissee scolastiche.
In piazza, le alternative erano due: o salire sulla corriera proveniente da un paio di paesi "a monte della linea", già satura di studentaglia e pendolame assortito; oppure, optare per la corriera locale, che si formava nella piccola frazione in riva al fiume, una sola fermata prima della piazza, ma sufficiente per riempirsi di astuti stateghi del sedile, disposti a sacrificare dieci minuti ulteriori di sonno, per andarsi ad accaparrare un posto.
Ma la filosofia familiare (dettata dall'esperienza di mio fratello) così recitava: meglio viaggio in piedi che dieci minuti di letto persi. Anche perché, nella corriera dei maghi dell'occupazione di posti, vigeva un clima di presa per il culo dilagante. Alcuni senatori studenteschi, e fini dicitori, sedevano sul fondo e applicavano il dileggio selvaggio verso le matricole dei primi anni, con veri e propri coretti di sarcasmo e creazione di crudeli (benché geniali) soprannomi, affibbiati agli individui socialmente più fragili.
Capite bene che sopportare una cosa del genere alle 6 e mezza del mattino, andava al di là delle possibilità di tolleranza, mie e di mio fratello. Per cui, vai di viaggio in piedi: trenta chilometri fino in città.
Nel mezzo del corridoio della corriera, stavo aggrappato ai corrimano, aderendo con un molleggio delle gambe alle curve e alle legnose frenate, e sfoggiavo il mio eskimo spelacchiato, fra gli sguardi uno po' snob delle ragazze dei paesi prima, sedute tutte ai lati, già in viaggio da vari minuti.
Fra loro c'era spesso anche una biondina dagli occhioni profondi. Con lei s'inaugurò persino un enigmatico gioco di sguardi, che dovette durare parecchi mesi, forse di diversi anni scolastici, ma senza mai pervenire a nessun scambio di parola, nella migliore tradizione del mio Charlie-Brownismo inveterato.
Solo una volta, in un viaggio di ritorno, quando i posti a sedere erano più abbondanti, mi capitò il miracoloso caso di potermi accomodare al suo fianco. E ricordo addirittura alcuni fugaci tocchi di ginocchio contro coscia, come fossero il tipo più conturbante di emozione al quale potessi ambire a quei tempi.
Il viaggio di rientro a casa, verso l'una, era in generale sempre più festoso e sollevato. Intanto, non faceva più buio fuori. E poi erano svaporate le tensioni scolastiche almeno per quel giorno, e fino a domani, sul versante pedagogico...vai a dar via il culo, va' là.
C'era spazio per qualche chiacchiera rilassata, si poteva stare seduti e ascoltare i racconti dei più facondi compagnoni, di solito i meno brillanti nell'iter di studi, i quali erano in grado di inanellare perle d'involontaria comicità, solo inserendo la "giusta" parola di troppo in una citazione dantesca, <<...Nel "bel" mezzo del cammin di nostra vita...>>, oppure di rovinare brani eterni del repertorio operistico, con la sola contaminazione di una lettera, <<..."e" la figlia dell'amo-o-re!...>>, mutandoli, con la geniale aggiunta di una sola "e", in canzoni da osteria seduta stante.
Per cinque anni è andata avanti questa storia. Col senno di poi, fu un bel sacrificio. Ma adesso, quei lontani episodi di eroica tenerezza quotidiana, li guardo anche un po' con nostalgia.
Ne avrei tanti da raccontare, ma ne cito uno per tutti, il più poetico forse. Una mattina, io e mio fratello pensavamo di essere in ritardo esagerato. M'ingolfai di zuppa a velocità supersonica, pur di non correre il rischio di perdere la corriera. Arrivammo in piazza, il buio era oltremodo intenso, non sembrava proprio quello dei giorni prima. Ma, cosa ancor più sospetta, non c'era nessuno alla fermata. Un'occhiata al campanile bastò a fugare ogni dubbio: ci eravamo alzati un'ora prima, per chissà quale inghippo "sveglistico". A quel punto, ad aspettare in piazza diventava lunga. Tornammo a casa, dove non ricordo bene se feci anche un micropisolo di attesa del vero orario, magari sognando la biondina dagli occhioni intensi.
Ci sono diversi modi di guardare verso il cielo. La sensazione generale è quella di stare sotto a un immenso tetto, il più grande immaginabile. Contrariamente a un tetto vero e proprio però, il cielo è rassicurante quando è "sfondato".
Ci sono giorni in cui lo senti basso, ermetico, sigillante, il cielo. E la cosa non ti fa tanto star bene. Allora si passa molto tempo con lo sguardo al suolo, o al massimo ad altezza uomo (e per questo si frequentano persino più volentieri persone di bassa statura). Si preferisce distrarsi con faccende terricole, fare finta che quel coperchio lassù, con le sue pressioni, quasi sia scomparso. Si è disposti a dimenticare che un cielo esista, pur di non patirne il gravame.
Ma poi magari capita un attimo di distrazione, nel quale si scorda anche quanto s'intendeva dimenticare. Un'occhiata sfugge in alto e subito si viene risucchiati verso uno squarcio spettacolare. Il cielo non è più barriera, ma filtro. Si spalanca verso un altrove.
Se nel caso di cielo ermetico, la percezione primaria è quella di star vivendo sulla Terra, quando il cielo si spalanca, ci si sente parte del cosmo, il nostro paese diventa l'Universo, siamo di colpo cittadini dell'infinito.
Il cielo allora non è più un confine entro al quale ti senti stretto, ma il nastro inaugurale di spazi vasti. Non è un muro d'aria, ma traspare e traspira. Lo sguardo si sente invitato a salire su una rampa di lancio, per partire verso qualsiasi viaggio interplanetario della fantasia.
Di solito, questi cieli amici dell'immaginifico sono di un blu radioso e ancor più intensa è la loro portata di bellezza, se sono corredati da mantelli sparsi di nuvolette. Si aggiunge allora anche un piccolo miracolo: la luce, invece di venire giù dall'alto, sembra innalzarsi da terra e poi svaporare su, sempre più rarefatta e pregiata, via via che si mescola al blu.
Sotto cieli così, non ci si sente "sotto", ma "verso". E l'animo si espande, respira, si ricolma di gioioso guardare. Si fa esso stesso batuffolo di nuvola e svolazza in balia di ogni corrente, fiducioso di esser trasportato sempre nel luogo più bello.
Torna la rubrica “Le muse di Kika van per pensieri”, oggi con un artista non molto noto, ma non per questo privo di una certa carica suggestiva. Stiamo parlando di Eugenio De Blaas (Albano Laziale, 1843 - Venezia, 1931), un pittore di origini austriache, naturalizzato italiano, che sviluppò gran parte della sua attività artistica nell’area del triveneto, in particolare anche con l’impegno come insegnante all’Accademia di Venezia.
L’opera di Eugenio De Blaas scelta da Kika si intitola “Raccolta di conchiglie”. Riguardo a questo quadro, non c’è molto da dire. Non perché privo di una sua dose di maestria e abilità tecnica, ma per il fatto che si colloca nella tradizione ottocentesca senza particolari guizzi innovativi.
Appunto perché c’è poco da dire “a parole”, voglio fare allora una riflessione riguardante ciò che le opere d’arte possono dire in autonomia, forti soltanto dei loro “mezzi” espressivi, ossia facendo leva solo sul proprio “parlare figurativo”. E lo farò riportando una piccola esperienza personale riguardante proprio questo quadro di Eugenio De Blaas.
Quando Kika mi ha comunicato di aver scelto l’opera di De Blaas, non sapevo nulla di questo autore, di che epoca fosse, di che nazione, ecc.: niente di niente. Come prima semplicissima cosa, privo di ogni riferimento storico, non ho fatto altro che osservare la foto del quadro. Quasi senza pensarci, ho capito subito che si trattava di un pittore dell’Ottocento, più precisamente del testimone di una certa tradizione accademica ottocentesca.
Racconto questo, non per millantare chissà quale esperienza visiva o sensibilità estetica. Lo scopo è invece ribadire un concetto già altre volte rimarcato: la storia dell’arte è la secolare vicenda di un lungo “discorso”, parlato per immagini. Ogni artista si inserisce con parole proprie nella grande “discussione” generale. E questo è già straordinario di per sé, ma la cosa ancor più esaltante è che ogni osservatore, appassionato, studioso, cultore, ammiratore (e così via) può apprendere l’«alfabeto» del linguaggio usato per parlare in quella grande “discussione”, e avere un’idea del punto storico in cui si può collocare grosso modo un’opera (ossia, sapere in quale parte della “discussione” in svolgimento egli si trova come osservatore).
Certo, il caso di Eugenio De Blaas non era uno dei più impegnativi, ma è bello notare tutta una serie di influenze tipiche della sua epoca: nelle sue due raccoglitrici di conchiglie c’è tanto Ingres, Millet, Courbet, c’è una certa luce che è stata così solo dai “macchiaioli” in poi, e andando leggermente più a ritroso, ci sono persino tracce di Delacroix e David. Insomma, chi si appassiona d’arte, ha la possibilità di esser parte di una bellissima e lunga storia, e anche se non è dato a tutti di intervenire direttamente nel “discorso”, se ne possono condividere le emozioni e la bellezza. Il compito che spetta, per questo scopo, è anche molto gradevole: bisogna osservare tante opere, acquisire familiarità con il loro dire, assimilarne i vocaboli visivi, entrare nella loro logica espressiva.
Prima di passare agli esiti dell’indagine fisiognomica di oggi, solo due impressioni personali suscitate dalla semplice osservazione del quadro. Ciò che mi piace in particolare di questo dipinto è il gentile dinamismo innescato intorno alla piccola cascata di conchiglie nel cesto. E’ un moto che parte dagli sguardi abbassati delle due ragazze, si dipana nelle diverse posizioni delle loro braccia e si risolve nel delicato scroscio finale dentro il cestino. Un tipo di composizione rassicurante, non “problematizzante”, non sufficiente a far annoverare l’opera tra i capisaldi della storia dell’arte, ma di sicuro effetto e pregio.
E ora, la ricerca di somiglianze: ho trovato due possibili volti, assimilabili alla ragazza in piedi, e due per la ragazza che versa le conchiglie. Come sempre, si tratta di fisionomie vagamente “evocanti”, più che di vere e proprie sosia. Ma passiamo a vederle.
Ecco il primo volto:
Piuttosto a sorpresa, abbiamo un personaggio molto noto, ma che magari non ci si aspetterebbe di “ritrovare” in quadro dell’Ottocento: l’attrice americana Catherine Zeta Jones.
A seguire, una somiglianza più “classica” e in tono con l’epoca del quadro:
Questa è la grande musa dannunziana per eccellenza, l’attrice Eleonora Duse (1858-1924).
Passando poi alla ragazza accoccolata sul cestino, ecco il terzo volto:
Ancora una certa sintonia cronologica, questa volta con la scrittrice Sibilla Aleramo (1876-1960), il cui romanzo più famoso, “Una donna” (1906), è ricordato come una delle prime opere anticipatrici delle tematiche dell’emancipazione femminile.
Concludiamo con l’ultimo volto:
Anche qui ritroviamo atmosfere piuttosto “retrò”, anche se si tratta di una donna di pieno Novecento: è l’attrice teatrale Marta Abba (1900-1988), nota soprattutto per il sodalizio artistico stretto col grande Luigi Pirandello.
E anche per questa puntata della rubrichetta è tutto, amici. Ora Kika ci aspetta come sempre sul suo blog, con nuove imperdibili magie artistico-modaiole, create attorno alle suggestioni del dipinto di oggi. Buona visione, direttamente sul blog “Le muse di Kika”.
Ciascuno si porta dentro il suo bel corredo di "pacchetti estetici". Non è molto facile definire queste entità, anche se tutti le conoscono benissimo e ci hanno a che fare ogni giorno.
Un "pacchetto estetico" è un agglomerato di emozioni e suggestioni organizzate, che gravitano attorno a un certo tema o a una particolare "dimensione".
Alcuni esempi: il "pacchetto estetico" dei film anni '40 e '50 in bianco e nero; il "pacchetto estetico" del calcio anni '60; il "pacchetto estetico" dell'arte liberty; e così via, ognuno ne può aggiungere a piacimento.
Come si evince dal mio elenco, il "pacchetto estetico" è spesso costituito intorno a un'epoca, in qualche modo "vissuta", vuoi direttamente, vuoi per conoscenza da fonti indirette (studio, letture e ogni altra modalità di acquisizione culturale). Questo ci permette di poter "possedere" in qualche modo anche "pacchetti estetici" relativi a epoche lontane. Il dato importante è che ogni "pacchetto estetico", anche se riferito a passati remotissimi, viene sempre vissuto da chi ne fa esperienza, con tutta la propria persona attuale, del momento.
Per fortuna che è così, perché altrimenti verrebbe quasi meno la natura stessa del "pacchetto estetico", il quale, come abbiamo visto, è spesso legato a realtà anche molto lontane nel tempo.
Un'altra caratteristica del "pacchetto estetico" è una sua specie di neutralità morale. Se ne possono possedere anche di terribili o bizzarri, senza per questo cessare di essere buone persone. Per dire, c'è chi sente fortemente il "pacchetto estetico" dei film dell'orrore, oppure quello della storia bellica e militare, pur essendo un tipo del tutto mansueto e pacifico all'estremo.
La relazione che si ha con un "pacchetto estetico" non è quasi mai un'adesione ai corrispettivi valori: più che altro è una fascinazione di tipo culturale, da studiosi della materia.
Un "pacchetto estetico" si può concretizzare come intensa sensazione del momento, come moto di una forte passione o come piccolo attacco di nostalgia di un certo periodo della propria vita, durante il quale il "pacchetto estetico" medesimo ebbe un rilievo non indifferente.
Personalmente, mi accorgo di venir colto spesso da quello che potrei definire come "pacchetto estetico" dell'ex mondo di oltre-cortina. È composto da una serie di antiche impressioni, formatesi nel mio immaginario attorno a tutto ciò che ha significato l'Unione Sovietica e tutta la storia annessa. Unione Sovietica e l'intero blocco culturale dei paesi che gravitavano intorno a essa.
Il fatto che io senta forte la suggestione di un simile "pacchetto estetico" mi conferma due ipotesi. La prima: un "pacchetto estetico" può coinvolgere tantissimo, anche esulando, tale coinvolgimento, dai valori contenutistici del pacchetto medesimo. Nel mio caso, ne ho conferma piena, perché fin da quando ne ho avuto nozione, il "pacchetto estetico" sovietico mi ha sempre fatto, per così dire, anche "orrore", eppure a livello emotivo ne ho sempre percepito la potenza.
La seconda ipotesi è un po' il rovescio della medaglia della prima: un "pacchetto estetico" può agire in senso opposto, risalire la corrente della semplice suggestione e andarsi ad affermare, nella mente e nell'animo di chi lo accoglie, anche in ragione dei valori che convoglia.
Non dimentico mai un'affermazione di Oliviero Toscani, riguardo alla popolarità (al limite dell'idolatrico) riservata alla figura di Che Guevara. Se non fossero esistite le celebri foto che ritraggono il guerrigliero argentino con quell'aria così da eroe romantico, con quel potentissimo fascino cinematografico che emanano, disse Toscani, il mito di Guevara non si sarebbe forse affermato con tale forza, o perlomeno avrebbe avuto dimensioni molto più limitate.
Queste cose, insieme alle altre dette circa la natura dei "pacchetti estetici", ci devono far riflettere sulla loro capacità di coinvolgimento, che in certi casi può portare persino a perdere di vista l'effettività del reale.
Insomma, un "pacchetto estetico" va conosciuto: bisogna sapere come affrontarlo, per viverne tutti gli aspetti positivi (di conoscenza e ampliamento del proprio potenziale immaginativo), ed essere cauti rispetto a tutte le sue capacità fuorvianti (pure presenti in forma massiccia).
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.»
Villiers De L'Isle Adam ---
«Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere...».
Bruce Chatwin - "What am I doing here" --- «Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro» Boscoe Pertwee - XVIII secolo
--- «Non mi sono mai pentito di essermi sempre pentito» - Gillipixel - XXI secolo
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