Quando si va in qualche luogo dove tocca fare sala d'attesa (a una visita, in un ufficio, dal dentista, ecc.), si presenta anche la questione di come ammazzare il tempo.
Per uno che, tanto per dire, d’estate si fa scrupoli persino a schiacciare una zanzara, si tratta in quei casi di impegnarsi piuttosto nella rianimazione del tempo, che non nella sua soppressione.
Una volta, prima dell'avvento dei cellulari “smarfoni”, ci si trovava generalmente abbastanza sguarniti.
Le alternative erano poche.
Una era mettersi a sparare quattro fregnacce di circostanza con dei perfetti sconosciuti, occasionali compagni di sventura cronologica.
Ma in quel modo, le insidie erano pronte a sbucare dietro ogni angolo.
Ecco allora che ti ritrovavi di colpo a naufragare nel periglioso oceano delle banalità e delle frasi fatte.
Annaspavi in capziose discussioni sul tempo, nel corso delle quali avevi la “fortuna” di venir iniziato ai profondi misteri dell'ovvietà climatica: “...eh…se c'è nuvolo, magari piove…ma se fa sereno poi viene la nebbia…”…
Oggi però che tutti giriamo sempre “smarfonati”, allineati e connessi, si possono vedere le sale d'aspetto di tutta Italia piene di persone piegate a capo chino sul proprio apparecchietto, rapite nel profondo dall’atto di “scadnassare” (“scatenacciare” = trafficare), “sditacciare” e “touch-screenare” sul mini schermo.
Esiste tuttavia un’opzione sempreverde, già valida in epoca “pre-smarfonale”, e che rimane praticabile anche in quest’era di iper-connessione diffusa: portarsi appresso un buon libro e immergersi nella lettura.
Si potrà obiettare che lasciar smarrire la mente dietro le lusinghe di uno “smarfone”, o dietro quelle delle pagine scritte di carta, non fa una gran differenza.
Invece io credo che sia ben diverso.
Il luminoso e ammagliante rettangolino del cellulare (dal quale confesso di venir assorbito molto spesso anche io) offre un tipo di passatempo ricchissimo, con foto, filmini, canzoni, scritti, consultazione di giornali, insomma una gamma informativa “bombardardeggiante” virtualmente infinita.
Questo non è affatto male di per sé, ci mancherebbe. Anzi.
Però, paradossalmente, tende a trasformarci più in soggetti passivi dell’interazione: il telefono, con la sua offerta infinita di stimoli, guida le danze e noi gli andiamo dietro.
Il libro invece, che pur all’apparenza si presenta come uno strumento di informazione più povero e limitato, proprio per questo motivo tende a suscitare maggiormente il nostro contributo attivo di fantasia, immaginazione, “creazione di mondi interiori” al seguito del filo della semplice parola narrante.
Si potrebbe ancora eccepire che il libro è troppo ingombrante, rispetto alla snella “tascabilità” di uno smarfone.
Pure questo è vero, ma volendo ci si può dotare di mini libricini molto comodi, grossi praticamente come un cellulare, purtroppo poco diffusi come formato, ma che sarebbe auspicabile gli editori prendessero a realizzare di più.
Personalmente ne posseggo uno che mi porto spesso con me, ed è una bella micro-edizione del “Canzoniere” di Francesco Petrarca (1304-1374), grande giusto come un cellulare, solo un po' più spessa.
Fra l'altro, il testo in questione è adattissimo a smarrirsi con la mente in un’attiva battaglia con l’immaginazione.
Perché la sfida aggiuntiva di arrovellarsi con un testo scritto in un’antica e ricercata forma di italiano aulico, arricchisce ancor più lo sforzo di interpretare, capire, suggestionarsi linguisticamente.
Così molto spesso, il mio tempo altrimenti gettato alle ortiche nelle sale d’aspetto, lo riciclo ottimamente differenziandolo lungo la meravigliosa scia di pensieri suscitati dalla poetica magia petrarchesca.
E sempre più di frequente mi succede di domandarmi come mai tanta gente insiste nel drogarsi, quando al mondo, da ormai oltre sei secoli, esiste una fonte di bellezza tale, da riuscire a farti incappare nella lettura di una meraviglia del seguente tipo:
Benedetto sia'l giorno e'l mese et l'anno
et la stagione e'l tempo et l'ora e'l punto
e'l bel paese e'l loco ov'io fui giunto
da' duo begli occhi che legato m'ànno;
Et benedetto il primo dolce affanno
ch'i’ ebbi ad esser con Amor congiunto,
et l'arco et le saette ond'i’ fui punto,
et le piaghe che'nfin al cor mi vanno.
Benedette le voci tante ch'io
chiamando il nome de mia donna ò sparte,
e i sospiri, et le lagrime, e'l desio;
et benedette sian tutte le carte
ov'io fama l'acquisto, e'l pensier mio,
ch'è sol di lei, si ch'altra non v'à parte.