110 - "Stan Chezza"
A un certo punto, ti scende addosso quella stanchezza che non è cattiva, e neanche tanto tangibile. Non è del corpo, ma nemmeno dell'anima, e tantomeno psico-fisica. La sensazione di essere un individuo quasi è svaporata via. Non esiste più stacco fra l'infinito delle essenze tutto intorno, e se stessi. Si diviene elemento fra gli elementi, sostanza indifferenziata in continuità col tessuto cosmico. È un tipo di stanchezza vasta, atavica, totale. Si sta come la navicella nel porto riparato, pronti a salpare per ogni dove, ma non ci sono forze per issare le vele. È come aver fatto cento chilometri a piedi, poi si guarda in giro, e non si è mosso un passo dal punto di partenza. Ma non c'è delusione. È svanito via anche lo stesso concetto di delusione. Scivolato nell'indistinto anche il medesimo meccanismo del concepire concetti. Si sta lì, nell'essenza del proprio essenziale. Cosa fanno la pioggia, il vento, la luna, il sole, una mela, un orso? La pioggia pioggisce, il vento ventola, la luna lunica, il sole sollazza, la mela melica, l'orso orsica. Lo stesso capita con questo tipo di stanchezza: non lascia altra scelta che continuare a sussistere in sé, pur nella cancellazione di sé. È una stanchezza che spaventa, ma solo quando non si conosce. Quando diviene familiare, si accetta come condizione inaggirabile. Essa è, e noi siamo lei. La non-senzienza, la non-desideranza, la non-volenza. Si può solo dimorarci in consustanziale stato. Prima o poi diventerà qualcos'altro.
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