domenica 24 luglio 2016

"Un pensiero al giorno"

119 - "Chi cura la malattia, se la malattia è la cura stessa?"

Oggi non ho nessun pensiero particolare, mini-racconto o facezia da riferire. Senonché, la mente è stata occupata molto in questi giorni dai gravi fatti che si sono susseguiti, sino all'ennesimo scempio di ieri, a Monaco.

Non si sa davvero dove sbattere la testa. Il fenomeno è di una complessità sconvolgente e le acque si sono ancor più intorbidate, dopo la dinamica della strage nel centro commerciale tedesco. Senza voler negare o fraintendere o confondere le effettive responsabilità, laddove le si possono individuare con precisione, viene però da domandarsi: dove sta davvero il nemico, se un qualsiasi depresso, instabile, fragile di mente può andare e sfogare le sue frustrazioni facendo una carneficina?

Ci tengo a sottolineare: io son solo un comune osservatore, la mia opinione vale più o meno quella di un normale "pontificatore" da bar, ma un paio di cose mi sento di dirle.

Pur nella differenza abissale fra i due fenomeni, c'è anche un'inquietante similitudine tra la follia terroristica e quella che esplode nell'uccisione di mogli, fidanzate o altri congiunti strettissimi. D'accordo, la prima è frutto molto spesso di fredda pianificazione, mentre la seconda scaturisce da raptus improvvisi. Ma in entrambi i casi, ci sta dietro un disprezzo assoluto, nichilistico all'ennesima potenza, per la vita umana. L'attentato di Monaco rappresenta, in un certo modo, uno "scatto di complessità": ha fuso con ancor più indistinzione le due tipologie di fenomeni. Alla base c'è l'insensatezza pura, la volontà di distruzione totale del proprio orizzonte esistenziale. Così come in quasi tutti gli atti di "autolesionismo familiare", lo sconvolto giovane attentatore si è alla fine suicidato. Siamo di fronte a una vera e propria volontà di annientare la realtà.

Se mai si giungerà a una soluzione di questo che si profila come uno dei più profondi intrichi nella storia dell'umanità, ci si deve sforzare dunque innanzitutto di ricalibrare il punto di vista da cui considerare il problema. È umano (troppo umano, avrebbe detto qualcuno) cercare di individuare un "nemico esterno", il classicissimo capro espiatorio che ci dia l'illusione di stare combattendo contro qualcosa di tangibile, di avere di fronte un qualche bersaglio concreto da abbattere.

Ripeto: le cause concrete ci sono anche, eccome. L'Isis non è una barzelletta, la questione migratoria è un problema immane, e altrettanto gravi sono le condizioni di ingiustizia patite da tanti popoli soggetti a regimi disumani. Questi e tanti altri fattori sono tra le principali concause.

Ma il corpo sociale cosiddetto occidentale, dovrebbe prima di tutto rendersi conto che una considerevole parte della magagna ce l'ha in seno.

"Ineguaglianza" credo sia una delle parole chiave. La quale passa a sua volta attraverso un'altra espressione cruciale: "ricalibrazione dei valori". Troppe persone vivono vite da "funzionari di un apparato". Non trovano senso alcuno nel ruolo in cui sono inquadrati, perché spesso il senso stesso a cui sono asserviti non ha nulla a che fare con i desideri, le aspirazioni, le intime speranze genuinamente tipiche della natura umana.

Una volta assicurate le condizioni per dignitose condizioni di vita (e le attuali ricchezze disponibili al mondo potrebbero con ogni probabilità essere sufficienti per tutti), l'uomo non può vivere senza il riconoscimento dell'altro, senza fusione armonica in una comunità, senza amore dai suoi simili, senza poter esprimere e riconoscere il proprio contributo al mosaico umano in cui è incasellato.

Più di ogni altra cosa, forse, è necessario rivalutare i punti di riferimento a breve raggio, quella dimensione "rionale" del vivere, che tanto nel paesino, quanto nella grande città, faccia sentire ciascuno davvero parte di una rete di piccoli nuclei umani solidali, compatti, omogenei, a loro volta ben amalgamati alle dimensioni comunitarie di più vasta portata (regioni, stati, realtà internazionali).

Come di fronte a tanti problemi, allora, è questione di direzione da prendere: non solo verso l'esterno, ma anche e soprattutto verso "l'interno" di noi stessi.


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