"Un pensiero al giorno"
99 - "Kappa"
Perché "adoro" così tanto Franz Kafka?
Perché mi si rivela così tanto "mio", oltre ogni razionalizzabile senso dell'immedesimazione? Perché, leggendo le sue pagine, mi investe la sorpresa di scoprirvi cose che già si trovavano da sempre dentro di me? Da quali remote dimensioni giunge questo suo incanto in grado di farmi comprendere talune sfumature del reale a me ben note, ma fino a un attimo prima frantumate nei mille frammenti di uno specchio rotto?
Com'è giusto che sia, non saprei rispondere in modo preciso a questi interrogativi. L'opera kafkiana è al tempo stesso limitata, per motivi biografici, ma sterminata sul piano dei contenuti. Forse per questo, avendo letto finora solamente uno dei suoi tre romanzi, il più noto e importante (credo), "Il processo", mi è sempre sembrato di aver ricevuto da questo autore già un immenso patrimonio di bellezza e mistero esistenziale.
Forse sempre in virtù della sua vastità, non avevo ancora affrontato l'altra sua opera fondamentale, "Il castello". I miei tempi di lettore non erano maturi, si vede. Ma lo sono diventati in questi giorni. È molto bello quando affronti la lettura di un testo, e senti che quello è proprio il suo momento, che doveva capitare in questa fase dello scorrere del tuo esistere.
"Il castello" mi si sta rivelando nel suo irrivelabile arcano. Forse un giorno verrà il momento anche del terzo romanzo di Kafka, "America", ma intanto so già che per una conoscenza degna dell'opera di questo infinito autore, è necessario leggere anche un testo "non-di-Kafka-ma-è-come-se-lo-fosse". Mi riferisco a "K." di Roberto Calasso.
Chi ne ha solo sentito parlare, oppure lo ha mal subito a scuola come lettura vessatoria, considera Kafka uno scrittore dell'angoscia, della tristezza, della speranza irrimediabilmente perduta. Non c'è niente di più sbagliato di simili preconcetti raffazzonati.
Kafka è esaltazione suprema dell'onestà esistenziale che non fa sconti. E come tale, in quanto massima espressione di coerenza, è anche fonte di bellezza suprema. Pur sapendo da tutti i retroscena esegetici che la scrittura di Kafka è frutto di notevole lavorio e travaglio, la sua prosa, al pari delle tematiche, si staglia con la precisione risultante da un unico deciso colpo di scalpello su un materiale scultoreo che nasce perfetto fin dal principio.
Kafka ci fa capire come la realtà in cui siamo "costretti" a vivere, non sia altro che la nostra intimità rivoltata, non si capisce mai bene se col proprio dentro verso il fuori, o viceversa.
E leggendo le sue pagine sbalorditive, ci si ritrova piano piano calati in un paradosso incantato. La sensazione che, quando tutto, intorno a noi, ci appare precludere una qualsiasi possibilità di salvezza, questo cantore dell'ansia, del burocratismo del vivere, del disagio spirituale militante, a sorpresa diventi la voce unica capace di salvarci.
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