venerdì 26 agosto 2016

"Un pensiero al giorno" 152 - "Il discobolo che mi ruotò lo sguardo"

"Un pensiero al giorno"

152 - "Il discobolo che mi ruotò lo sguardo"

Durante tutta un'esperienza scolastica da studenti, si incontrano piccoli, ma importantissimi attimi di "illuminazione conoscitiva". Si tratta di concetti importanti per la propria crescita culturale; a volte magari sono contenuti in un dettaglio che ad altri dice poco, ma risulta personalmente fondamentale per cominciare a guardare le cose del mondo da una differente prospettiva, facendoci nel contempo innamorare della materia in questione, o ancor più in generale, dell'atto conoscitivo in sé, della pura sete di sapere.

Per mia fortuna, ho avuto tante di queste illuminazioni, a partire dalle scuole elementari, fino all'università. Quella che forse ricordo con più affetto, mi si disvelò fra le trame della storia dell'arte.
In generale, è un'idea di cui si viene a conoscenza quando si studia il passaggio dall'arte greca arcaica, a quella moderna. Ma la fattispecie che me ne fece innamorare è circostanziata a una singola opera particolare, il discobolo di Mirone di Eleutere (V sec. a.C.).

Il concetto è semplice, ma gravido di tante implicazioni nello stesso tempo. Le sculture arcaiche tendevano a rappresentare la figura umana inquadrata per piani. In parole povere, la statua di un soggetto era declinata fondamentalmente secondo quattro punti di vista: fronte, retro, fianco destro e sinistro. Era come inscatolata in una visione a quattro scatti in successione.

Con l'avvento della statuaria classica, e in particolare col discobolo (per il quale il discorso è particolarmente evidente, ma valido anche per tantissime altre opere coeve), viene introdotta una rivoluzione: la scatola si spezza a partire da una nuova prospettiva centrifuga e centripeta insieme. Non ci sono più punti di vista limitati e in successione, ma lo sguardo si apre a un'infinita possibilità di osservazione da mille prospettive, collegate fra loro senza soluzione di continuità.

Quasi inutile dire che mi esaltai tantissimo per questa "scoperta", e la amai fin da subito come una meraviglia di bellezze. Non era soltanto un passo avanti nella mia progressione culturale, ma conteneva anche la miglior metafora del progresso conoscitivo medesimo: saper osservare le problematiche e i tempi nella loro complessità, tenendo conto dei mille punti di vista possibili. Questo voleva dire appassionarsi al sapere.

Dopo l'illuminazione avuta in dono dal discobolo, ebbi modo di godere di tante altre (ad esempio, la sua versione raffinata in prospettiva moderna da Picasso col cubismo); ma quella mi è sempre rimasta molto cara, per la carica "iniziatica" con la quale mi venne incontro.

Il discobolo mi confermò in un proposito che credo di aver avuto dentro da sempre. Ma ci voleva qualcosa o qualcuno (il mio prof di arte) che me lo tirasse fuori. Io volevo stare dalla parte di chi ama sapere: questo fu l'insegnamento più bello ricevuto da quel caro, vecchio, plastico, blocco di marmo (nella copia romana, perché l'originale era in bronzo).



1 commento:

Occhi blu ha detto...

"Yet the men of marble appear to have more weight with the public than the men of canvas; perhaps on account of the greater density and solid substance of the material in which they work, and the sort of physical advantage which their labors thus acquire over the illusive unreality of color. To be a sculptor seems a distinction in itself; whereas a painter is nothing, unless individually eminent. [...]
A sculptor, indeed, [...] should be even more indispensably a poet than those who deal in measured verse and rhyme. His material, or instrument, which serves him in the stead of shifting and transitory language, is a pure, white, undecaying substance. It insures immortality to whatever is wrought in it, and therefore makes it a religious obligation to commit no idea to its mighty guardianship, save such as may repay the marble for its faithful care, its incorruptible fidelity, by warming it with an ethereal life. Under this aspect, marble assumes a sacred character; and no man should dare to touch it unless he feels within himself a certain consecration and a priesthood".

(Nathaniel Hawthorne, "The marble faun")