venerdì 4 dicembre 2015

Le muse di Kika van per pensieri: Jean-Baptiste Greuze (1725-1805)


Per le nostre rubrichette incrociate di arte, incanti modaioli e suggestioni somatiche, Kika ha scovato oggi un quadro delizioso e per di più alquanto “birichino” (il che non guasta affatto…anzi). Si tratta di “Giovane donna con cappello bianco” (“Jeune Femme au chapeau blanc”) dipinto nel 1780 da Jean-Baptiste Greuze (Tournus, 1725 – Parigi, 1805). Ci troviamo ancora a considerare un artista minore nell’ambito della storia dell’arte, ma non possiamo certo dire di aver a che fare con un pittore altrettanto noioso (almeno a giudicare dall’opera in questione). 

Un’opera d’arte non si osserva soltanto con gli occhi. Un ruolo determinante nella contemplazione viene giocato anche dalla mente, dai pensieri, o ancor meglio, da tutto il cumulo di ricordi, nozioni e riferimenti culturali posseduti. Uno dei giochi prediletti della mente è associare le cose fra loro. E non c’è niente di meglio che un quadro, per far scattare una simile magia. Talvolta si può trattare anche di associazioni curiose e inusuali, ma se si prescinde dal rigore critico più stretto, ne possono nascere elaborazioni immaginifiche del tutto degne di nota. E’ così che voglio osservare per questa volta il dipinto “Giovane donna con cappello bianco”: lasciando andare un po’ a ruota libera le varie impressioni. 

Questi quadri del Settecento francese (forse soprattutto in virtù di tutto quanto si sa “in parallelo”, dal punto di vista storico), mi trasmettono sempre un’impressione di felicità in bilico, legata a una precaria età dell’oro, a un’imminente perdita dell’innocenza. Sono gli anni che precedono la rivoluzione per eccellenza, quella francese (1789-1799) e di lì a poco il mondo verrà stravolto (intendendo il discorso con tutti i propri chiaroscuri), ma i personaggi di questi quadri sembrano vivere sospesi nel tempo. 

D’accordo, quell’età dell’oro (con relativa “innocenza”) fu tale solo per una ristretta cerchia della società, e dunque fu un bene che le cose si evolvessero come si sono poi evolute. Ma le mie considerazioni non si vogliono addentrare al di là del puro “percepito pittorico”, perché il discorso si farebbe troppo complicato ed esulerebbe dagli umili scopi della rubrichetta. Oltre a quelle di Jean-Baptiste Greuze, penso dunque ad esempio anche alle opere di Jean-Antoine Watteau (1684-1721), o ancor di più a quelle di Jean-Honoré Fragonard (1732-1806), oppure Jean-Baptiste-Siméon Chardin (1699-1779).

Tali opere sono attraversate da una leggerezza a metà tra l’irresponsabile e il trasognato. E’ un tipo di leggerezza che all’osservatore comunica anche uno strano senso di ansia. Vien quasi la voglia di avvertirli, questi tipi all’apparenza così “superficialotti”: presto, non perdete tempo con le vostre sensualità da quattro soldi, fra non molto vi arriverà addosso una valanga che nemmeno ve la immaginate, state pronti!!!

Spesso una vena di malinconia percorre i visi dei personaggi e le scene in cui sono immersi, alla maniera di chi s’è troppo abbuffato di piaceri e ora si ritrova un po’ smarrito nell’eccesso di appagamento. Oppure, in preda alla frenesia spasmodica del desiderio, con addosso una sorta di febbre che lo divora con fare metodico. Vengono alla mente “Le relazioni pericolose” (1782) di Choderlos de Laclos (1741-1803), oppure, anche se su altri registri, “Il Capitan Fracassa”, ma solo per le atmosfere, essendo stato scritto nel 1863 da Thèophle Gautier (1811-1872) e trattando di un’epoca leggermente precedente.

Stilisticamente parlando, questi quadri sono immersi in una sorta di atmosfera liquida, in un lucore vitreo che demarca al tempo stesso eleganza e fragilità. L’ammiccamento è nell’ordine stesso delle cose rappresentate: tutto rimanda a un godimento promesso o in procinto di essere afferrato. Tutto (o perlomeno molto) suggerisce, allude, sottintende, “doppio-sensualizza”. 

Il prototipo di questo tipo di “opere ammiccanti” è un celebre dipinto realizzato da Fragonard nel 1777, e s’intitola “Il chiavistello”. Cito questo quadro perché in esso è presente un “meccanismo allusivo”, che in piccolo ritroviamo poi anche nella vezzosa dama col cappello bianco di Greuze. Una bellissima analisi del “Chiavistello” di Fragonard è contenuta in un testo del critico francese Daniel Arasse, “Storie di pittura” (Einaudi, 2004), un libro che a mio parere ogni appassionato d’arte dovrebbe leggere, per il grande godimento intellettuale che regala.
“Il chiavistello” - Jean-Honoré Fragonard (1777)

La scena ritratta da Fragonard ci racconta di un tumultuoso e furtivo appuntamento amoroso. Come giustamente fa notare Daniel Arasse, il pittore dà un taglio ben curioso all’inquadratura: ben più di metà dell’ambientazione è occupata da panneggi e ammennicoli tessili vari, all’apparenza poco significativi nell’economia della narrazione visiva. C’era proprio bisogno di tutto questo scialo di tessuto, che si traduce in uso copioso di colore e pennellate?

Diamo un’occhiata più maliziosa (come tra l’altro si aspetta il pittore stesso) e ci renderemo conto del perché: questo ammasso di coltri, lenzuola e vesti, non è altro che un gran dispositivo di produzione seriale di doppi sensi. Andiamo in ordine crescente sulla “scala della piccantezza”: lo spigolo del letto allude a un ginocchio ripiegato fasciato da vesti; i due cuscini (ma guarda alle volte il caso) sono disposti giusto in modo da riecheggiare la forma di due seni puntuti rivolti al soffitto; e per passare infine alla zona più “hot”, non vi sto nemmeno a spiegare cosa richiamano, da una parte, quella porzione del tendone rosso sulla sinistra, “arrotato a torciglione”, con sotto due sospetti rigonfiamenti sferici, e appena un po’ a destra, sempre lo stesso tendone che si apre in una iper-maliziosa fessura ricchissima di pieghe e piegoline.

Ecco però come Daniel Arasse ci spiega tutta la magia di una simile operazione compositiva e le implicazioni profonde che essa comporta: «…la grande tenda di velluto rosso che pende sulla sinistra […] E’ una metafora del sesso maschile, non c’è alcun dubbio. Nel momento in cui lo dico in modo così grossolano, il quadro si trova evidentemente snaturato, poiché questo non dice niente. Giustamente non c’è niente. Ma o si vede o non si vede: si ha voglia di vedere o meno. E se è vero che non c’è niente, c’è qualcosa di proposto, e credo che la pittura sia esattamente questo. […] …questo dettaglio che occupa metà del quadro […] non è altro che un letto a baldacchino, e se comincio a chiamare per nome la cosa, il mio discorso si tinge di una volgarità che non corrisponde affatto al quadro. Ora non è nient’altro che pittura…[…]…chiamare il letto ginocchio, sesso, seno, sesso maschile eretto, è scandaloso, poiché è precisamente ciò che non fa il quadro. Non lo dice, non lo mostra neanche, sta a me vederlo o meno. Sono dunque messo di fronte all’innominabile, non perché la pittura sia nell’indicibile, ciò implicherebbe una nozione di superiorità, ma perché opera nell’innominabile, nell’al di qua del verbale. E quindi la rappresentazione opera, ma non appena la nomino, perdo questa qualità di innominabile della pittura stessa. […] Il risultato di questo innominabile della pittura, di cui il quadro di Fragonard mi sembra un esempio perfetto, è che la pittura è costantemente in uno statuto di oggetto del desiderio…».

Se si cambia leggermente la prospettiva al discorso, questa interessantissima analisi, con tutte le sue complesse implicazioni culturali, può essere vista anche come una sorta di fuggevole e complice canzonatura, rivolta dal pittore al proprio pubblico. E’ un invito a giocare con le immagini, a lasciarsi trasportare dalla gioia della “immaginazione”, per l’appunto, in un territorio dove non serve nominare le cose, perché “là” esse sono vissute già in maniera diretta, senza intermediazione concettuale, che ne sancisca una volta per tutte la loro univoca identità di oggetti reali. La pittura insomma ci porta nel regno della multiformità e della “multi-significatività”, nella potenzialità immaginativa senza limite degli oggetti. 

In scala ridotta, e con molta meno finezza del “marchingegno figurativo-metaforico” utilizzato, anche nel dipinto di Jean-Baptiste Greuze si gioca questa ambivalenza intorno allo spazio “sacrale” dell’«innominabile». La costruzione equivoca è messa in piedi già a partire dal titolo: “Giovane donna con cappello bianco”. Ora, sarò malizioso io, non dico di no, ma son pronto a scommettere che, il 99% degli osservatori maschi di questo quadro, l’ultima cosa che vanno a guardare è proprio il cappello. Ci ho provato diverse volte e ci riprovo, a rimirare e riguardare il dipinto, ma alla fine il risultato è sempre lo stesso: l’occhio mi cade sempre “in quel punto là”, non c’è niente da fare. Uso la perifrasi “quel punto là”, per non cadere a mia volta nella violazione della trappola dell’«innominabile», ma di fatto è così. 

L’intera composizione, in forza di “quel punto là” in basso a destra, sembra dunque costruita come un vortice che inevitabilmente va a parare “proprio là”, come fosse un gorgo che trascina giù l’occhio, una calamita visiva. Laddove dunque in Fragonard lo “spreco di tela” era tutto concentrato in una parte che esulava dall’azione principale, qui il meccanismo si ribalta, ma con risultati analoghi: il resto della tela, che dovrebbe essere il nucleo della narrazione, sembra quasi accessorio rispetto alla “zona proibita” in cui si concentra il “mistero assai poco misterioso” di tutto il ritratto.

Mi rendo conto come questa mia analisi un po’ grossolana sia fortemente sbilanciata sul punto di vista maschile. Ma sono convinto che in qualche modo (seppur per motivi molto diversi) valga anche per la parte femminile del pubblico. Nel senso che la nudità (soprattutto se parziale, come in questo caso) rappresenta in ogni caso un punto focale di una scena. E questo ci conferma come mai il nostro pittore di oggi, tra gli altri motivi, non è ricordato fra i grandi autori: perché per ottenere il risultato dell’allusività, che in un Fragonard passava attraverso sottili e ironici sotterfugi, Jean-Baptiste Greuze si affida al mezzo più facile e di effetto immediato.

La sfida fisiognomica di oggi si è rivelata abbastanza proficua. Ho trovato cinque volti, più o meno somiglianti: diciamo che nessuno di essi è soddisfacente fino in fondo, in quanto a similitudine, ma immaginando di prendere un po’ dall’uno e un po’ dall’altro, ci si avvicina al volto della dama col cappellino bianco. In più, c’è una sorpresa finale, che scoprirete a breve.

I primi cinque volti sono tutti di attrici italiane. Li passiamo in rassegna velocemente.

Ecco il primo volto:


Si tratta di Violante Placido.

E ora andiamo col secondo:


Abbiamo qui Vittoria Belvedere.

Adesso il terzo volto:


Da una Vittoria a un’altra, questa è Vittoria Puccini.

Ora la quarta similitudine:


Questa è Giovanna Mezzogiorno.

Ecco poi l’ultima attrice:


In questo caso abbiamo Eva Grimaldi.

Ed eccoci finalmente alla gran sorpresa conclusiva. L’ultima somiglianza è dedicata a una giovane regista e film-maker, che è anche una cara amica di Andarperpensieri e “Ma robe da nutria”:





Si tratta di Ilaria Marchini, autrice di un bellissimo documentario dedicato proprio alle nutrie e alla “vexata quaestio” delle specie alloctone. Questa importante opera di Ilaria, intitolata “The invasion – A Coypumentary” (gioco di parole fra “coypu”, ossia “nutria” in inglese, e “documentary”), è stata recentemente presentata in prima visione a Bergamo. Un ottimo veicolo di sensibilizzazione e di informazione riguardo alle tematiche della fauna selvatica non originaria dei nostri luoghi, ma non per questo meno degna di rispetto e sensibilità ecologica.

Ringrazio tantissimo Ilaria per avermi concesso di poterla coinvolgere nel gioco delle somiglianze, e approfitto per ricordarle che può sempre avvalersi della facoltà di “Johnny-Stecchinizzarmi” a piacimento, proclamando senza problema: «…nun me somiglia pe’ nnniente!!!...».

Chiudo qui questa lunghissima puntata, e come di consueto passo la parola a Kika, che sul suo blog ci stupirà con magie di moda ispirate a quella birichina della dama col cappellino bianco.


2 commenti:

Kika ha detto...

Pensa che anche a me il volto della ragazza di Greuze ha fatto venire in mente una persona che conosco!
E ci siamo ritrovati pure sulla citazione delle "Relazioni pericolose" :)
Per il resto il mio post naviga più in superficie, l'ho buttata un po' sul ridere ;) Il tuo invece apre un discorso molto interessante sugli effetti psicologici delle immagini e sul ruolo dell'arte in tutto ciò: doppi sensi, sguardi che cadono proprio dove vuole il pittore (anche quelli femminili, confermo: magari non subito, ma alla fine del percorso la meta dell'occhio è sempre quella :)... Mentre cercavo info su Greuze avevo trovato un bel testo su Diderot che commentava un altro suo quadro, "L'uccellino morto", aprendo inaspettati spiragli; non ne ho parlato perché per il mio post sarei andata troppo fuori dal seminato, ma se ti interessa te lo consiglio come approfondimento (basta che cerchi su google i termini e dovrebbe saltar fuori).

Gillipixel ha detto...

@->Kika: mi è piaciuto molto affrontare questo artista, Kika :-) come tutte le volte che un'opera ispira belle elucubrazioni e riflessioni sull'arte e sui suoi concetti...

Greuze, da quel poco che ho capito di lui, mirava spesso a suscitare l'emozione, l'effettaccio...anche in questo caso, l'intento è chiaro: quel lembo di nudità all'apparenza così casuale, ma in realtà molto progettato, ce lo conferma...non importa con quale animo lo si guardi: di fatto esso attira l'attenzione per il suo essere insolito, e rimanda a tutta una serie di emozioni, sia per uno spettatore uomo, sia per una donna...

Ho visto qualcosa del commento di Diderot che mi citi...grazie, molto interessante...un'altra conferma della ricerca sempre emotiva di questo autore...infatti, come capita a tutti gli artisti che si buttano solo sull'emotivo, non è passato alla storia come un innovatore :-)

Bacini navigati :-)