"Un pensiero al giorno"
48 - "Parlare sulla carta, scrivere col fiato"
Quando scrivo, spesso mi rendo conto di usare un linguaggio "a parte". Forse non ci si fa molto caso, tanto si è abituati a mutare visione a seconda dell'ambito, ma ci esprimiamo a voce molto diversamente da come lo facciamo per iscritto.
Ecco, quale miglior esempio? Solo due frasi, e ci sono cascato subito: quando mai, esprimendomi a voce, mi verrebbe naturale usare l'espressione "per iscritto"?
E ne usiamo in continuazione. Chi si ricorda l'ultima volta che ha pronunciato, in una conversazione, le parole "egli", "essa", "taluni", "tuttavia", "assai", "cotale", "costoro"? Invece quando scriviamo non ci sembrano termini tanto fuori luogo.
Sembra dunque che l'italiano viva una sua più o meno consapevole forma di doppia identità. Pierpaolo Pasolini aveva molto a cuore questa tematica e l'ha trattata in diverse sue analisi linguistiche molto raffinate (ad esempio in articoli raccolti nel suo "Empirismo eretico" - Garzanti - 1972). Giustamente, possiamo aggiungere, perché la lingua che usiamo ha un ruolo fondamentale nel definire la nostra identità.
Il fenomeno dell'italiano a "scorrimento binario" potrebbe sulle prime far pensare a una sorta di negativa doppiezza, a un'ambiguità che non fa tanto onore al nostro idioma nazionale. Pasolini, osservando la realtà, come spesso era solito fare, attraverso le lenti dell'ottica analitica marxiana, vedeva in questo fatto un sintomo della particolare suddivisione in classi, che storicamente si è imposta nella nostra società. Per semplificare al massimo: da una parte, una lingua delle classi alte, abbienti, egemoni (coi mezzi per accedere agli strumenti culturali e educativi), e dall'altra quella dei meno agiati, più diretta e popolare, spesso confinante col dialetto.
La questione è ovviamente troppo complessa per venire esaurita in queste poche righe. Ma facendo salvo l'interesse per le tesi di Pasolini (da approfondire, per chi volesse; e preciso: le mie riflessioni in confronto sono solo umili banalità) si può aggiungere una piccola considerazione, alla luce di tanti nuovi e più recenti fenomeni.
Siamo proprio sicuri che la "duplicità" dell'italiano sia davvero una sua caratteristica così poco lusinghiera? Le nuove modalità di comunicazione hanno causato una riscoperta notevole della parola scritta, tanto da far calare in modo sensibile l'utilizzo della telefonata classica, dello scambio comunicativo a voce. Si preferisce parlarsi con parole scritte perché è più economico, pratico, ecc. Ma anche perché si entra in un'altra dimensione, a mio parere (e non solo mio). Scrivere è più intimo, porta più in profondità, ci concede di dire cose dicibili solo in quella forma.
Ecco dunque che noi italiani, al di là di come la cosa si è formata nei secoli, abbiamo a disposizione già una duplice dimensione linguistica (meno accentuata per altri popoli). Il bello è che possiamo rendere questo fatto un punto di forza.
La preziosità evocata dalla lingua scritta ci introduce già in uno spazio speciale. E c'è di più. Il rischio sempre in agguato col nostro tipo di lingua scritta è l'eccesso di pomposità, di ricercatezza fine a se stessa e tutto sommato al limite del ridicolo. Con la lingua colloquiale, c'è il rischio opposto della sciatteria. Poi ci sono tanti altri semi-linguaggi o sotto-stili che rappresentano altrettanti pericoli di bruttura: il bimbo-minkiese, il giornalistese, il "sempreverde" politichese, l'esse-emme-essismo, l'esterofilese azzerbinato, il tecnocratichese, e così via.
Ecco allora che scrivere in italiano può diventare un ottimo esercizio di ricerca d'equilibrio.
Uno "scrivente" italiano ha davanti a sé, nello stesso tempo, un'opportunità e un fardello notevoli. Può servirsi degli stessi "strumenti" nobilitati a suo tempo dal genio di grandi come Dante, Manzoni, D'Annunzio, Svevo, Pirandello. Ma deve maneggiare questi gioielli con saggezza. Deve trovare la propria dimensione di modellatore di parole odierno. Deve sapersi accoccolare con grazia e misura sulle spalle dei giganti che gli offrono tuttora un appoggio. Possibilmente senza sentirli protestare che gli abbiamo pestato un orecchio o dato un calcio sulla nuca.
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