"Un pensiero al giorno"
47 - "Come ti sgeriello il magico trufo del linguaggio"
<<...Un piccolo trufo si era infilato in un geriello e non ce la faceva più a uscire. S'era proprio inselimato fino ai gibelli. Passarono di lì, nell'ordine, un gergopigneco, un saffiolo, una merchignappa e alcuni stravagnoli, ma nessuno si degnò di aiutare il povero trufo.
Alla fine, passò anche uno sprimaccione, di ritorno dal suo turno alla fabbrica di cuscini Ronfodür. Tra trufo e sprimaccione non era mai corso buon fiame. Ma nessuno dei due sapeva come mai. Contrariamente a quanto avrebbe fatto seguendo il suo gongifonio istintuale, lo sprimaccione si fermò a zevignare col trufo.
Sbingognarono con gran cordialità, quasi senza accorgersi che in quel buon tempo trascorso insieme in piena sviribitudine, pian piano il trufo si stava sbericollando dal geriello.
Sprimaccione e trufo rimasero molto biliformi per questo fatto. Tutto si era svolto come una cosa magdiforme e ai due non restò altro che prenderne atto, e andare insieme alla speppoteca, a bersi un buon grummine di fiolosàt in compagnia...>>.
Mi piace ogni tanto creare queste storielle infarcite di parole inventate di sana pianta. Al di là del divertimento immediato, queste piccole fole surreali hanno anche un loro fascino linguistico.
Una regoletta che mi impongo nel gioco è quella di inventare le varie parole prive di senso, senza pensarci su troppo, affidandomi a una certa immediatezza istintiva. Se una parola richiede troppa elaborazione, la scarto e attendo che "me ne venga" un'altra.
In questo modo, ho quasi l'impressione di addentrarmi in un mistero del linguaggio. Le parole non sono semplici suoni appiccicati sopra alle cose o ai concetti. Le sequenze di lettere usate, coi rispettivi suoni, intessono invece in qualche modo un legame magico-fisico-poetico con le cose che nominano e con chi le nomina.
Ovviamente è una cosa che non si può dimostrare sul piano razionale e tanto meno scientifico. Si tratta di una sorta di intuizione che può trovare una qualche forma di conferma solo nell'affettività di cui sentiamo permeato l'uso della lingua. Attraverso la lingua, il mondo entra in noi, e noi nel mondo. E' nella dimensione di questa duplice osmosi che forse, come in nessun altro ambito, possiamo sentire più forte quella prerogativa tutta umana riassumibile nella locuzione "desiderio di infinito".
Il mondo è infinito (o perlomeno così lo percepiamo), mentre il linguaggio è finito (o perlomeno così percepiamo anch'esso). Ma quando l'uomo, nell'alba dei suoi tempi, iniziò a sperimentare il potere di riuscire a trasportare le cose del mondo, prima nel suo pensiero e poi nell'animo dei suoi simili, servendosi di semplici segni, prima sonori e poi sempre "più fisici", questo potere gli sarà sembrato un potere immenso.
Il linguaggio nasce dunque se non infinito, perlomeno colmo di infinita carica di mistero. Prima di diventare veicolo di trasmissione di contenuti circoscritti in un preciso codice fra umani, il linguaggio ha vestito le forme del mito. Ci sarà stata una fase (probabilmente lunghissima) in cui i suoni "si staccavano" dalle cose per passare alle bocche, alle lingue, alle gole, fase vissuta nel pieno di una misterica apertura degli uomini verso l'ignoto, l'inspiegabile, l'inaudito.
Una traccia di tutto ciò, molto evidente seppur posta in sottofondo, rimane tuttora nella lingua. Anche dopo essere diventata lo strumento principe della nostra razionalità. Per questo, l'invenzione estemporanea di "parole istintive" non è soltanto un esercizio ozioso di superficiale infantilismo. A suo modo, ha invece a che fare con l'essenza più velata del linguaggio. Col suo significato più remoto e inafferrabile.
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