Per lo scrittore e per il lettore, scrittura e lettura non sono altro che un gioco di specchi continuo, nel quale le rispettive intimità si riflettono a vicenda: ciascuno è convinto di aver strappato all'altro qualche velo del suo pudore, portando alla luce un lembo prezioso di nudità dell'anima; e così lieti entrambi se ne stanno, beandosi del valore incommensurabile del segreto rubato. Senza sapere (o forse solo divertendosi a fingere di non sapere) che nessuno ha rubato nulla a nessuno, ma si sono soltanto compenetrati nella perenne fusione di spirito che intercorre fra le mille generazioni degli umani...
Lo scrittore si sorprende a scrivere frasi la cui complessità più profonda sfugge anche a lui medesimo; allora ama non comprendersi, in modo da poter offrire la propria follia al lettore-psichiatra, o l'infanzia dei suoi concetti a un lettore-mamma, il quale possa cullare le sue frasi nella rarefatta sintonia di una favola cara ad entrambi. Uno di quei casi, l'avete qui sotto agli occhi, adesso...
Lo scrittore abita la scrittura perché solo lì può trovare lo stato del perenne innamoramento; nel villaggio delle parole è sempre sabato; la pancia della narrazione frulla ogni minuto di farfalle svolazzanti in gioiose schiere "pluritonali"; il batticuore incalza mozzando il ritmo del fiato, come i martelletti di una macchina per scrivere; e il sangue pulsa senza sosta come un tamburo "olandese" impazzito (interessando anatomicamente giusto le zone del paese dei polder)...
Le incursione modaiole di Kika nel mondo delle immagini hanno ultimamente imboccato il sentiero delle favole. Anche la presente mia rubrichetta incrociata si accoda dunque al tema, spostando l’attenzione sulla fiabesca dimensione così adorata da grandi e piccini (va beh, si fa per dire…in realtà certe fiabe son molto più tremende dei film di Dario Argento, altro che balle…).
Kika ha scelto stavolta la favola di Biancaneve, nell’interpretazione di una giovane illustratrice: Sophie Lebot. Come di fronte a ogni immagine, possiamo divertirci a fare alcune considerazioni generiche a ruota libera, su questa suggestiva versione della celeberrima “mangiamele”.
A prima vista, il modo in cui il personaggio è rappresentato, più che impressioni varie, mi ha suggerito due nomi, di per stessi già garanzia di piccoli universi di impressioni: Tim Burton e Raymond Peynet. La figura non si preoccupa chiaramente della deformazione anatomica, anzi la sfrutta per caratterizzarsi. Dal mondo di Tim Burton, pesca una certa inquietudine e bizzarria di fondo (gli uccellacci neri lassù in cielo aiutano a completare l’atmosfera, anticipando cosa succederà dopo il morso alla mela). Dalle scene di Peynet (autore dei famosi “innamorati”), prende a prestito un modo dolce di raffigurare, con quella manina tenera, nel reggere una mela evidentemente troppo spropositata per la bocca minima destinata al fatale morso.
D’altra parte, il punto focale di tutta la scena è incentrato sul viso, a sua volta costruito per mettere in evidenza la bocca. Sempre molto “Tim-Burtonianamente”, fra la testa e il resto del corpo non c’è proporzione (ricordate con quale capoccione conciò Helena Bonham Carter per il ruolo della Regina Rossa in “Alice in wonderland”). Tutti gli elementi del volto sembrano fatti per convergere visivamente nella boccuccia così piccola, ma paradossalmente preposta a scatenare così grandi stravolgimenti del destino.
Nell’insieme, il pregio di tutta l’immagine a mio avviso sta nel senso di sospensione trasmesso: la mela è a un soffio dal finire fra le piccole labbra, il braccio sottile sembra spingerla già verso l’alto, mentre lo sguardo, rivolto allo spettatore, contiene un misto di dubbio e fatalità, con un risultato non poco fascinoso.
L’«artificio scenico» del gesto sospeso è vecchio come il mondo, ma garantisce sempre un effetto emotivo efficace. Al proposito, mi sovvengono tre esempi celebri nella storia dell’arte, ma se ne potrebbero fare a bizzeffe. Uno: la formella per il battistero di Firenze di Lorenzo Ghiberti (1378-1455), recante l’episodio del sacrificio di Isacco, con Abramo colto nell’atto di calare il colpo letale sul figlio, frenato dall’intervento provvidenziale dell’angelo del Signore; due: il maestoso “Martirio di San Pietro” dipinto dal Caravaggio nel 1601; tre: la coeva “Conversione di San Paolo”, sempre del Caravaggio.
Per il gioco delle somiglianze, ho trovato tre possibili volti.
Ecco il primo:
Si tratta dell’attrice americana Lucy Liu.
Il secondo volto invece ci riporta in patria:
Questa, altri non è che l’inconfondibile Nicoletta Strambelli, in arte Patty Pravo.
E infine, col terzo volto, rimaniamo sempre in Italia:
Abbiamo ancora una cantante, Anna Hoxha, che conoscerete tutti meglio senza le due “h”, dismesse per motivi artistici, quando iniziò la carriera, facendosi da allora chiamare semplicemente Anna Oxa.
Si conclude qui questa puntata favolistica delle “Muse di Kika viandanti per pensieri”. Se volete vedere adesso con quali strabilianti sorprese si può rimodellare il look della tenebrosa Biancaneve di Sophie Lebot, non vi resta altro da fare che balzare nel blog di Kika e godervi le sempre interessanti invenzioni della nostra maghetta modaiola preferita.
Lo scrittore, quando armonizza parole, si immerge in una dimensione sacrale: indossa la solenne tunica dell'ufficialità del dire e proclama stando in cima al podio della significazione; se poi vuole virare verso rotte più romanzesche, basta che sollevi un lembo della sua veste di officiante, mostrando sotto, poco più di un paio di mutande sdrucite, o il calzino dall'elastico allentato, giocosamente molle alla caviglia...
Un po' per caso, e un po' grazie a un sacchetto di mele, ho scoperto una piccola parola tedesca molto simpatica: duft.
Sulla confezione in realtà c'era scritto "morgenduft". Della lingua di Goethe e Beethoven conosco giusto due espressioni, e guarda caso "gute morgen" ("buongiorno", "buona mattinata") è fra quelle. Doveva dunque trattarsi di un composto di "morgen" più "duft". Di bene in meglio: "duft" mi suonava delicato, grazioso, morbido (pur con quel pizzico immancabile di rigidità che mai può mancare nell'inflessibile idioma teutonico).
Il grado di simpatia è poi schizzato alle stelle, quando sono andato a vedere il significato: "duft" vuol dire infatti "odore", "profumo", "aroma", "fragranza", "olezzo".
La bellezza della piccola parola nel mio immaginario si è così arricchita di un aggiuntivo tassello onomatopeico: "duft...duft...". Sembra quasi il suono gentile che riecheggia nelle narici di un cagnone, o di un micio, intenti a grufolare essenze olfattive a destra e a manca; oppure l'impercettibile fruscio di corposi sbuffi di profumo, emessi proprio dalla mela, impreziosita da un così pittoresco nome: "profumo del mattino!".
Da grande appassionato dell'atto dell'odorare (meraviglioso verbo bidirezionale), mi sono dunque definitivamente innamorato della mini-parola "duft".
Così non mi resta che concludere: cari "duft...duft..." a tutti voi!!!
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(Oh, ma questa foto?!?!?!... Ah, ma quell'altra?!?!?!... Ehehehe...)
Allo scrittore interessa la vita "more romanzesco demonstrata"(*), dimostrata secondo "l'ordine di realtà" del romanzo. Poi, dichiarando con solennità: "poeto ergo sum", fa delle proprie parole un punto di appoggio e a partire da lì, solleva il mondo...
(*)= "Ethica more geometrico demonstrata" - Baruch Spinoza (1677)
Lo scrittore si addentra nell'atmosfera di certe sue frasi come se vagasse in un paesaggio di vecchi casolari rurali diroccati, fra tetti feriti e monconi di muri sfondati, dalle sommità ricamate di muschi; in altre circostanze narrative, percorrendo la propria prosa gli sembra di scorrere lungo un viale rigoglioso di linde villette con giardino, dentro le quali ferve l'incalzare delle piccole incombenze giornaliere. Sia in un caso, sia nell'altro, allo scrittore sta sempre a cuore il racconto della vita, che fra quei muri si è vissuta, si vive e si vivrà...
Quando lo scrittore si cala nella dimensione scritta, per lui è come entrare nella miniera dei sette nani: Sillabo stacca blocchetti di materiale narrativo dal ventre della montagna; Pàrolo lo impasta e lo modella; Fraseggio raffina le forme; Concettolo le mette nel forno e le cuoce; Virgolo colora le immagini raccontate; Ritmolo abbellisce i dettagli; e infine Rileggilo sparge magia per il lettore col suo spruzzino fatato...
Lo scrittore scrive anche per non smarrire il privilegio di poter continuare a rimanere un selvatico, al tempo stesso addomesticato sulla pagina dagli umani...
Lo scrittore coltiva la parola scritta sapendo che nella profondità del fraseggiare è custodito il mistero del mito: in esso si cela l'insondabile motivo per cui Psiche non avrebbe mai dovuto contemplare il volto di Amore; oppure come mai era preferibile per Orfeo non girarsi a guardare Euridice; anche se tutto ciò, nella malia della scrittura, può essere rivelato anche raccontando la tenera pazienza dello sposo, nello scoprire l'abito della sua promessa soltanto una volta davanti all'altare...
Da un po’ di tempo mi frulla in mente il sospetto che dentro di noi convivano due spiritelli contrapposti. O meglio, ferma un momento. Dire “dentro di noi”, è forse un azzardo ipotetico eccessivo. Mi correggo, allora: facciamo “dentro di me”. Perché nel salotto della testa degli altri, non posso certo permettermi di andare a sindacare.
Ci sono insomma queste due entità, questi folletti, gnomi, nanetti esistenziali, elfi della personalità, che si contendono a modo loro la quotidiana partita dei miei pensieri.
Uno dei due folletti, è in realtà una piccola folla, ossia una folletta (Ah – ah – ah! Ho fatto la battuta, ho fatto…!). Ma la battuta è gratuita fino a un certo punto. Questa folletta infatti vale da sola una quantità numerosa di individui. Il suo nome è Niki, detta la Vitalista. Perlomeno è così che la chiamano, in giro per le piazze neuronali e nei sobborghi sinaptici più frequentati. Niki la Vitalista è un personaggio simpatico. Innanzitutto è femminile. Ama la fantasia, le cose creative. Trova sempre qualcosa da inventare, e anche nei momenti di maggiore piattezza, se proprio non le viene nemmeno un’idea, si reinventa la concezione stessa dell’inventare.
Niki è lunare, istintuale, emotiva (oppure istintiva ed “emotuale”: Oh – oh – oh! Ma come sono spiritoso oggi…). Niki, per istinto appunto, si fida più delle sensazioni. Si immerge nel tempo, infilandolo sempre dalla parte in cui esso tende a una leggera follia. Niki crede nell’empatia, nell’utopia della fusione fra gli animi delle persone. Per lei lo scorrere del tempo è ciclico, sa che le cose hanno un inizio, finiscono e poi si rigenerano. Non si scoraggia troppo dunque quando il suo scoppiettante biplano dell’umore sta veleggiando a quote davvero molto basse. Perché sa che arriverà sempre il momento di un nuovo colpo di cloche, in grado di riportare il velivolo alle altezze rarefatte della serena consapevolezza di sé.
In virtù di tutto ciò, Niki adora confrontarsi con l’andirivieni alternante del binomio fame-sazietà. Per dirla in senso più ampio, Niki desidera desiderare. Sa inoltre che il gioco dei piaceri ha regole ben precise: se non le conosci e non stai alle regole del gioco, il gioco ti demolisce. Niki ha allora imparato nel tempo un particolare tipo di saggezza della sensualità. L’eccesso va schivato come una trappola esiziale, ma altrettanto pericoloso è il rifiuto della soddisfazione dei sensi. Niki può permettersi di spingersi diretta a contemplare il nocciolo accecante del piacere, perché da tempo si è costruita gli occhiali da sole adatti a non farsi male agli occhi.
C’è poi quello “scassa” di Vito, l’altro folletto. Sì, Vito il Nichilista. Spiace dirlo. E non per fare del razzismo di genere: sarei un fesso, altrimenti, a parlare male della mia stessa categoria di appartenenza (va beh, forse lo so in ogni caso, in generale, fesso). Spiace dirlo, insomma, ma Vito è maschio. Per dirla in termini brutali, Vito certe volte non vorrebbe nemmeno esistere (da qui il suo nomignolo: il Nichilista). Vito vuole vedere tutte le cose alla luce del sole. Per lui i conti “devono” tornare per forza. Va in crisi quando qualche ingranaggio, anche pur minuscolo, si inceppa. E’ un precisino ansioso che ve lo raccomando. Nei suoi momenti peggiori, diventa persino un misto fra il bigotto e il saputello, che non gli si può stare proprio accanto. Se le cose non funzionano a dovere, per Vito è tutto da scartare. Da qui la sua propensione ricorrente a voler buttare tutto, se stesso compreso, nel gran pentolone nulla. Per Vito il tempo scorre come su una linea: è progressivo, niente ritorna mai. Una volta passata, ogni cosa si può solamente rimpiangerla e provare nostalgia per lei, per sempre. Vito è introiettato dentro di sé. Tende un po’ al solitario. Rimugina un sacco e prima di passare all’azione…anzi, è difficile persino ricordarsi l’ultima volta in cui è passato all’azione.
Non ha però solo difetti, Vito il Nichilista. Per esempio, aiuta Niki la Vitalista, quando a lei sfugge un po’ di mano la situazione. Quante volte l’ha riportata a casa un po’ alticcia, coprendole la bocca con una mano, perché lei avrebbe voluto cantare a squarciagola nei vicoli affollati del comparto cerebrale in cui si gestiscono la compitezza e la serietà del comportamento. Possiamo dire questo: Vito ha molti difetti, ma anche questo unico pregio di portata più vasta, e piuttosto importante. E’ stato lui infatti che ha insegnato a Niki la saggezza delle emozioni.
Insieme fanno dunque una coppia di vicendevole completamento reciproco. Niki la Vitalista e Vito il Nichilista: e non ci sarebbe altro da aggiungere, insomma. Se non un’ultima cosa: ancora non ho capito chi sia quel terzo misterioso folletto che si prende briga di andare a raccontare tutti questi fattacci miei. E’ un tizio alquanto grafomane. Proprio non riesce a lasciare in pace quella benedetta tastiera. Mai che si facesse una carrettata di affaracci suoi…ma se lo becco…
Lo scrittore ama immergersi nelle sue frasi perché lì ritrova le sfumature di tutti gli odori mai annusati, l'eccitazione al palato di tutti i sapori mai gustati, le tonalità di ogni possibile colore, la variata armonia della musicalità infinita, la trama superficiale di qualsiasi cosa mai toccata...
Ho passato dunque in rassegna due tipi di metafore, nelle quali a mio avviso si cela una possibile “spiegazione parallela” dei rischi narrativi che qualsiasi scrivente potrebbe correre, affrontando ogni occasione di scrittura. Non importa se alta o bassa, impegnata o dai toni più leggeri: dico proprio ogni genere di scrittura, dal racconto, al romanzo, dall’articolo di giornale, al semplice commento su internet, dal saggio filosofico, al biglietto di auguri Natalizio, e così via.
Nel caso della “pornografia narrativa”, l’inganno si nascondeva nella quantificazione della realtà. Parlando di “ipocrisia pubblicitaria”, l’ambiguità sbucava fuori da una certa tendenza a rivolgersi al lettore come a un individuo caratterizzato da un animo puramente emotivo, in grado di “ragionare” solamente “di pancia”.
La terza variante della metafora in un certo senso integra e completa le prime due. Essa attinge le proprie riserve immaginifiche dal mondo dell’architettura, e più in generale, dal concetto di progettazione di oggetti. Per questo definisco tale fallace propensione a scrivere, assimilandola a certe forme di “incoerenza strutturale”.
Sin dai tempi antichi, la sensibilità dell’uomo ha portato a precisare il concetto di buona “progettazione di cose”, orientandosi su tre coordinate fondamentali, enumerate poi nell’ambito della civiltà romana da Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. – 15 a.C.), uno dei primi teorici di tale disciplina che la storia ricordi. Quando si concepisce un oggetto, sia esso una casa o un comodino, un transatlantico o una spilla da balia, non si può prescindere da nessuno di questi ingredienti: la “utilitas” (utilità); la “firmitas” (traducibile molto liberamente con “capacità di reggersi in piedi”); la “venustas” (bellezza). A mio avviso il discorso è estensibile a ogni forma di espressività umana, sino a coprire anche quelle più gratuite ed eteree, come possono essere certe forme di “arte per l’arte”. A maggior ragione dunque si attaglia bene alle questioni di scrittura.
Anche la più folle, e surreale, e gratuita, e disincantata, e disinteressata forma d’arte, nasce con un suo scopo. Non fosse altro che per la pura volontà di esistere come opera in se stessa, o di affermare la gioia, la disperazione, la meraviglia dell’artista che la realizza, c’è sempre un forma di “utilità” ricercata (intendendo naturalmente il termine “utile” nella sua accezione più estesa possibile, non limitata ai semplici fini pratici). Ecco giustificata dunque l’imprescindibilità della “utilitas”.
Inoltre, anche la più immateriale delle espressioni artistiche, ha bisogno “stare in piedi” in qualche modo. Un taglio di Lucio Fontana, ad esempio, che è forse la massima esaltazione del confronto col concetto di vuoto, non si potrebbe esprimere senza la tela che lo circonda, senza i vari colori, o la cornice o telaio che regge la tela, ecc. Non si dà nulla allora di esprimibile, condivisibile e trasmissibile, senza la “firmitas” (forse soltanto il pensiero puro può farne a meno, ma pagando l’irrimediabile prezzo di rimanere per sempre isolato dentro la mente che lo sta pensando).
Infine, anche la più pratica, la più calcolata, la più ragionata, la più fredda, misurata, computata, la più quantificata delle concezioni di un oggetto, non potrà mai fare a meno di una sua quota di “venustas”. Sempre se si intende, anche in questo caso, la bellezza nella sua estensione di senso più ampia. Ossia, la bellezza come naturale propensione, insita nella sensibilità umana, ad attribuire “significati empatici” alle forme con le quali si ha a che fare. L’uomo non può farne a meno: di fronte alla forma di un oggetto, sente nascere in se stesso spontaneamente un qualche moto di adesione o di repulsione. Il percepire un qualcosa come entità estesa in uno “spazio” (sia pur esso anche lo spazio immateriale dell’immaginazione), fa scattare il desiderio di confronto tra quel “qualcosa” e la propria identità di “oggetto spaziale umano”.
Ho portato i tre ragionamenti ai loro estremi, per cercare di dimostrare l’irrinunciabilità delle tre componenti fondamentali. Se il discorso vale allora per i casi limite, a maggior ragione sarà valido per le dimensioni più “normali”, come può essere quella dello scrivere. Se il trio di ingredienti (espressivi-concettuali-strutturali) non è ben armonizzato ed equi-distribuito nell’atto della scrittura, ne risultano aberrazioni e scompensi di ogni tipo. Se c’è eccessiva preoccupazione per la “venustas”, si ritorna in qualche modo al caso della “ipocrisia pubblicitaria”. Se l’accento è calcato in modo spropositato sulla “utilitas”, ritroviamo una forma di “pornografia narrativa”.
Se invece si esagera nel dare importanza alla “firmitas”, abbiamo il caso specifico che la terza metafora della “incoerenza strutturale”, più propriamente vuole esprimere. Abbiamo in altre parole, una situazione espressiva di scollamento fra contenuto e forma. La forma diventa un orpello malamente incollato sopra alla struttura, un apparato scenografico aggiunto in maniera maldestra, una cortina di cartapesta posta sopra al sottostante impianto di cemento armato. Questo accade nella scrittura, quando le parole suonano come una superflua spettacolarizzazione, un apparato teso più a stupire, che non a rendere giustizia all’armonia che sempre dovrebbe sussistere fa “sostanza” del dire, e “modalità” scelte per dire.
Di fronte a certe frasi riuscite con particolare ricchezza di meraviglia, lo scrittore s'innamora così tanto che non vorrebbe mai congedarsi da loro; le leviga, le carezza ancora una volta, si stringe ad esse con l'abbraccio di un nuovo punto e virgola, vi sospira sopra un aggettivo più consono. Poi giunge il momento esatto in cui lo scrittore sente di doverle lasciar andare: nel mondo saranno i lettori a continuare a farle vivere in plasmante multiformità interpretativa...
Come ho cercato dunque di raccontare, lo scrivente secondo la “forma calamis” porno-narrativa è colui che calca l’accento sugli aspetti quantitativi della vita, esasperando a tale scopo il gradiente “iper-emotivo” del materiale narrato. Il “porno-narratore” scrive come se l’identità umana si reggesse esclusivamente sul dato dell’emozione pura, volendo quasi far credere che tutte le altre dimensioni dell’essere, non sussistano.
Proprio intorno a questo aspetto, è imperniata la seconda immagine metaforica che, integrando la prima, mi sembra consona ai rischi di un certo modo di scrivere: la scrittura da “ipocrita pubblicitario”.
Per spiegare questa metafora, mi rifaccio all’impressione che non di rado si prova, nel seguire talune trasmissioni o programmi, proposti da certe emittenti tv cosiddette commerciali. Mi riferisco a quel più o meno vago (e talvolta insistente) sentore che si percepisce, di atmosfera da vendita a tutti i costi. Questo fa parte naturalmente delle regole del gioco, perché quel tipo di televisioni si reggono in piedi appunto sulla logica pubblicitaria. Ma ci sono canali che spingono il meccanismo all’estremo, contaminando i contenuti stessi di tutta la programmazione, con quel clima da “mercato continuo”. Se dunque lo scopo primario è vendere e far vendere, e tutta la realtà deve venire livellata sulla dimensione commerciale, lo spettatore ideale di tutto ciò è una persona perennemente desiderante, è proprio lo stesso «uomo a una dimensione» (indegnamente parafrasando Herbert Marcuse) già tratteggiato anche dalla pornografia, ossia l’uomo fatto solo di emozione e tutto reazioni di pancia.
La natura del fenomeno si evince con evidenza particolare da un certo modo di confezionare i programmi di informazione (telegiornali e simili), che talune televisioni commerciali cavalcano a tutto spiano. L’evidenza viene assegnata quasi sempre ai fatti di cronaca nera, presentati con una costruzione narrativa degna di una sceneggiatura da film giallo o da thriller. Si calca la mano sui risvolti commoventi, melensi, sorprendenti, ma anche morbosi, pruriginosi, intimi, di quei fatti.
Altro materiale che simili telegiornali macinano di gran lena, è l’immagine individualistica della persona. L’«homo oeconomicus» che deriva da tali ritratti (o forse sarebbe più preciso dire «homo commercialis»), è un uomo tendenzialmente solo (o tutt’al più inquadrato nella cerchia ristrettissima degli affetti più privati), con un concetto quasi assente della collettività, la quale è anzi vista e presentata come un contesto pressoché ostile, entro il quale ci si deve fare strada con le proprie forze di “competitore emotivo”.
La cosa è particolarmente evidente nel caso dei notiziari o telegiornali vari, ma ad un’attenta analisi, ci si potrà rendere conto che più o meno subdolamente essa serpeggia come sottofondo anche in altri tipi di trasmissioni proposte dalle tv commerciali. L’individuo deve essere quasi esclusivamente “desiderante”, per meglio attagliarsi a un tipo di realtà in cui si mira a far prevalere la logica monodimensionale del rapporto economico come unico fondamento del reale. E tutto questo, se non fosse così dannatamente serio, alla fine non si potrebbe nemmeno dire privo di risvolti tragicomici. Perché se ci si pensa bene, l’intero mastodontico “impianto drammaturgico” viene messo in piedi per partorire il topolino della maggior vendita di qualche pannolino o merendina.
Cosa c’entra questo discorso (al pari di quello della “pornografia narrativa”) con la scrittura? C’entra nel seguente senso: per chi scrive, esiste il rischio, l’insidia, di mettersi a scrivere come un “ipocrita pubblicitario”. Il rischio ossia di trattare il lettore come un individuo esclusivamente desiderante, puramente emotivo, con in bocca perennemente la goccia di acquolina della compravendita esistenziale, eletta a norma unica di determinazione della propria identità.
Lo scrittore, mentre scrive, prova a volte l'ebrezza di muoversi come un rullo compressore che passa sopra un prato di margherite: nemmeno lui comprende sino in fondo il senso del proprio fare, ma quando si volge indietro, vede le margherite dopo il suo passaggio, e le scorge più belle, rigogliose, arricchite di nuova sorpresa. Quelle margherite sono le sue parole...
Chiunque si metta a scrivere, in qualsiasi genere di scrittura si avventuri, trova sul proprio cammino un tipo di insidia molto pernicioso. La cosa vale soprattutto per i racconti di natura romanzesca, costruiti intorno a una propria “finzione drammaturgica” autonoma. Ma il discorso non cambia nemmeno nel caso di ogni altra categoria dello scrivere: saggistica, giornalismo, genere favolistico, poesia…tutto, insomma.
Con triplice metafora, definirei questo pericolo, rispettivamente come “pornografia narrativa” (traslando l’immagine dal mondo del cinema), oppure come “ipocrisia pubblicitaria” (dal mondo della tv), o ancora come “incoerenza strutturale” (dal mondo dell’architettura).
Oggi cerco di spiegare cosa intendo con la prima metafora: “pornografia narrativa”.
Cosa succede nei film porno? Lo scopo unico del meccanismo “creativo” messo in atto è arrivare a mostrare esplicitamente l’atto sessuale, in tutte le possibili variazioni sul tema. Il 99% delle volte ne consegue una falsatura del reale molto stonata. Dovrebbe essere questa falsatura, a mio avviso, il vero motivo di scandalo, in questo genere di “creazione cinematografica”. Ancor prima del fatto che si mettano in mostra gli organi sessuali, i quali di per se stessi, se visti nella loro semplice naturalezza, non hanno nulla di osceno.
In questo genere di “mimesi filmica”, il vero scandalo è dato dal modo in cui la vita, (costituita innanzitutto da componenti qualitative), viene appiattita sul suo dato quantitativo. Con rispetto parlando per la matematica (molto spesso assai più elettrizzante e seducente di un film porno), si rende banale e freddamente “matematico”, ciò che in realtà è legato a una delle dimensioni della vita più misteriose, insondabili, arcane e sotterraneamente fascinose: quella dell’erotismo e della “sensua-sessua-lità”. La rozza equazione “più ti faccio vedere, più ti devi eccitare”, alla lunga si rivela un meccanismo vuoto, perché il mistero erotico è talmente inafferrabile e complesso, da far risultare questa scialba riduzione nient’altro che un ozioso insulto alla verità delle cose.
Ebbene, esiste un modo di scrivere che fa la stessa cosa dei film porno. Parlo sempre in senso metaforico, naturalmente. Non mi riferisco a chi si metta a scrivere proprio di erotismo e simili (quello sarebbe un altro discorso). Chi scrive cadendo nella “trappola pornografica” (anche parlando di una semplice giornata di sole in campagna), usa la scrittura imbrogliando il lettore. Gioca con carte false. Tradisce il patto di sincerità che dovrebbe sempre tenere in costante comunicazione la mano di chi scrive con gli occhi di chi legge.
Tra scrittore e lettore viene stipulato sin dalla prima parola un “accordo di verità”. Non importa poi quanto inverosimili o fantastici potranno anche essere i fatti narrati, o le argomentazioni esposte. Quel che conta è che essi siano fedeli a una forma di “coerenza rispettosa”, nei confronti della “effettività” dell’essere e dell’esistere.
Faccio un esempio, credo il più “estremo” possibile. Forse non c’è nulla di più irrealistico delle storie dei super eroi. Eppure esse funzionano, e sono oneste nei riguardi del lettore-spettatore, perché la motivazione intima di quelle storie parte da un sentimento effettivo, da tutti condiviso: ossia il desiderio di superamento dei limiti umani, unito alla frustrazione per il senso di finitezza vissuto da chiunque in tante circostanze reali. In quel tipo di scrittura, che si sparino balle grosse come case, fa parte del “contratto” fra narrante e lettore: ma conta soprattutto che sotto a quella roba lì, ci scorra vita vera. Non a caso, un simile meccanismo narrativo è antico come il mondo, e sta alla base di ogni mitologia del passato (esempio più eclatante: gli Dei greci), del presente e del futuro.
Un’altra volta, proverò a spiegare cosa intendo per “ipocrisia pubblicitaria”, vista entro i termini dell’atto della scrittura.
Lo scrittore è per il lettore come il gatto per il padrone: quando scrive, parla sempre di sé, anche se racconta del lento crescere di un cavolo sotto la rugiada; il lettore sente invece se stesso come protagonista di ogni scritto che legge. Risultato: coi cavoli si fa merenda, il gatto fa gesti che il padrone raramente comprende, ma gatto e padrone s'intendono a meraviglia, entrambi argomentando sopra un folto strato di morbida pelliccia...
Una cosa sopra tutte, lo scrittore e il lettore imparano, dal proprio scrivere e dal proprio leggere: di non essere mai stati infanti, e dopo bimbi, e poi ragazzi e a seguire uomini; ma di esser sempre stati, e di continuare a essere, tutte quelle fasi di sé messe insieme, in un unico tempo che li avvolge e li racconta...
Lo scrittore sperimenta di continuo la curiosa inversione cronologica che solo lo scrivere sa offrire: per tutti gli altri aspetti della vita, ciò che è venuto prima si ammanta di un'aura leggendaria; nel caso delle parole, no: le più preziose, le più mitiche, le più degne di nostalgia, sono quelle che verranno scritte domani...
Talvolta lo scrittore viene colto dall'impressione di non avere oramai nulla da dire a nessuno, e che mai più la sua penna vergherà una frase degna di essere letta; ma poi gli basta far svaporare quel fiotto di panico, lasciarsi trascinare nell'incessante scorrere del quotidiano, e le frasi tornano a emergere, come placidi riflussi di una neutrale risacca interiore...
Lo scrittore sa benissimo che senza le farfalle nello stomaco, senza l'inafferrabilità amorosa, senza il tumulto dei sensi, senza il cortocircuito viscerale di un erotismo delle dita sempre sul punto di carpire l'inconsueto del dire, non si darebbe scrittura alcuna...
Lo scrittore agguanta lo scritto perfetto, ogni volta che riesce ad essere per il lettore come un gentiluomo al cospetto di un'elegante dama compita: lui le mostra il sorriso o un polpaccio, oppure oltrepassa ancor più l'impudicizia, forse scoprendo addirittura il suo cuore; lei, a ogni disvelamento, viene percorsa da un estatico fremito di rapimento, al di là dell'umano ristare fra gli umani. É in quegli istanti che si rivela lo scritto perfetto...
Lo scrittore usa le parole come un obiettivo fotografico; la frase è un'inquadratura per depurare la scena da tutto ciò che sarebbe superfluo dire; il ritmo delle sillabe si delinea calmo come gioco di chiari e scuri; l'acume dei pensieri dá la profondità di campo; il sottinteso racconta ogni altro oggetto fuori visuale; la meraviglia del lettore è tutta l'emozione di colori che ne consegue...
Lo scrittore cerca nel suo scrivere il più precario degli equilibri: quell'infinitesimo discrimine che distingue il "sentirsi soli", dal "sentirsi parte"; l'esser uno, irrimediabilmente singolo e isolato, dal fondersi con l'altrui fuori di sé...
QUESTO BLOG E' FELICEMENTE IMMUNE DAL "PIUTTOSTO CHE"UTILIZZATO (SBAGLIANDO) COME SINONIMO DI "OPPURE"
Gemellaggi e altre Gillipixate...
Cari lettori di andarperpensieri,
Vi ricordo che quasi tutti i venerdì, questo mia variegata paginetta si gemella con il caro blog amico di Kika, la quale vi riveste con grande maestria i soggetti femminili di quadri storici, mentre il vecchio Gillipix indaga fra i volti della modernità, alla ricerca di insospettate somiglianze fisiognomiche. Tutto questo in:
«...Codesto solo oggi possiamo dirti,/ ciò che non siamo, ciò che non vogliamo...»
Montale (...E' u' Genio) ---
«Vivere? Lo facciano per noi i nostri domestici.»
Villiers De L'Isle Adam ---
«Come tutti gli scansafatiche, anche io volevo scrivere...».
Bruce Chatwin - "What am I doing here" --- «Tempo fa ero indeciso, ma ora non ne sono più così sicuro» Boscoe Pertwee - XVIII secolo
--- «Non mi sono mai pentito di essermi sempre pentito» - Gillipixel - XXI secolo
taccuino ritrovato 7
-
La mia generazione per lungo tempo se l’è dimenticato, ha volto lo sguardo
altrove disperatamente: la mia generazione nuotava nell’eroina e aveva una
bravu...
L'ISOLA DESERTA
-
Mi piacerebbe dire che la mia passione per le isole tropicali è iniziata in
un modo nobile, che so, leggendo L'isola del tesoro di Stevenson o
guardando i ...
Questione di etimologia
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Aveva ragione Moretti, le parole sono importanti.
Molti dicono di no, che le parole sono solo una convenzione, che
l'importante è la sostanza.
La sostanz...
CONFITEOR #6
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perché dove non arriva la sfiga...arrivo io!
Perché io lo so che la casa è lo specchio di chi la abita e che il nostro
pianeta è la più grande casa.
E a...
Confusion
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Altri dubbi sulla tecnologia.
Se un Blogger non scrive per diverso tempo ,si deve capire che ha dei
motivi personali anche gravi di salute per non pot...
L'auto disciplina
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E’ da un po’ che ci penso mentre osservo le persone , poche in verità,
andare in giro per le strade della mia cittadina. Qualcuno è avvolto in una
sciarp...
UNDICI
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*Giovanni Segantini*,* L’angelo della vita*. Olio su tela. 1894. Galleria
d’Arte Moderna, Milano
11 come le parole piccine che ti sussurro all'orecchio a...
SUCCEDE A VALENZA MA RIGUARDA TUTTI
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E' successo a Valenza.
Un uomo ha ucciso una donna.
Al solito parlano di raptus. Al solito parlano d'amore. Lo fanno i
giornalisti tentando di dare ...
Gelo
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Buon anno nuovo a tutti.
Propositi del 1 gennaio: leggere e acquistare nuovi asciugamani.
Cose concretizzate il 2 gennaio: presi libri nuovi e asciugamani.
L...
Un saluto ad Andrea Camilleri
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Non basta leggere, bisognerebbe anche capire.
Ma capire è un lusso che non tutti possono permettersi.
(da *Segnali di fumo*)
Collezionista
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Quando ero piccola adoravo collezionare conchiglie.
I miei mi avevano regalato una piccola collezione e passavo pomeriggi
interi a fantasticare sulla lor...
SPELACCHIO
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Il Vero, unico e solo spelacchio è Lui, tutto il resto sono misere
imitazioni:-) Chi meglio di Spelacchio rappresenta questo nostro tempo di
vita intensa f...
Comunicazione di servizio
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Come avrete notato ormai da due anni e più il blog soffre. Scrivo poco, più
per dovere forse, e non mi sento stimolata.
Ho cercato un'altra modalità per rip...
L’UOMO RAGNO NERO
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Ho a che fare quotidianamente con ragazzi immigrati perché insegno loro
l’italiano. Sono richiedenti asilo, rifugiati, in attesa di permesso di
soggiorno...
Our souls at night
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Some books just happen with such an impeccable timing. I've hidden Our
souls at night by Kent Haruf in a corner of my mind for months and started
it when...
...disegni
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"Cos'è disegnare? Come ci si arriva?
E' l'atto di aprirsi un passaggio attraverso un muro di ferro invisibile
che sembra trovarsi tra ciò che ci si sent...
TEMPI MODERNI
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Qualche tempo fa è venuto nel mio studio un bimbo che voleva fare lezioni
di disegno, accompagnato dalla sorellina e dalla mamma.
G. ha otto anni e le...
UNA SERATA CON THE INVASION A FORLI’
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Altro appuntamento con il nostro The Invasion – A Coypumentary sabato 8
ottobre a Forlì (FC), in via Hercolani 5, alle ore 19:30. “Nutrie: tutta
un’altra s...
Valentine Cats ♥
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martha stewart
Oh ciao, rieccomi... Oggi con dei bei gatti valentiniani, domani finalmente
con un outfit veloce... e poi torno anche a dirvi tutto il res...
Rimpinzati, ma di baxciut saziami
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La principessa *Galaeld* era ghiotta di *accorns*. Ne ordinò un quintale a
mastro *Eribowit*, il quale così la omaggiava, dall’ingresso della sua
botte...
PERDONATELA
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In chat con V.
*"Ho mangiato quattordici Ferrero Rocher, ora che mi succede?"*
*"Come minimo passerai la nottata in bagno..."*
*"Cioè?"*
*"Ma come quattordic...
Perché è qui?
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*Le parole sono tante, troppe, affollano il cervello, non vogliono uscire,
perché è qui? ti manca il tuo amore peloso, doveva essere una vacanza, solo
soff...
L’ameba mangia-cervello
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Qui
http://lorologiaiomiope-national-geographic.blogautore.espresso.repubblica.it/
(uff, devo riuscire a scoprire come si fanno i redirect)
Privilegi
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Non cè malumore al mondo che un paio di scarpe nuove non possano
cancellare. La percentuale di miglioramenteo è direttamente proporzionale
all'altezza del ...
Dell'educazione del pargolo italiano
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Vado maturando il sospetto che tanti difetti dell'italiano medio nei suoi
rapporti con la politica abbiano la loro origine nella matrice educativa
ricevuta...
Lilith o Eva?
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LILITH ED EVA
In principio Dio creò il cielo e la terra e poi Adamo ed Eva .eh no!Pare
che nella tradizione ebraica la prima donna di Adamo non fu Eva ma ...
Chiuso
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Il 24 maggio di 3 anni fa, in una sera da nulla facenti, il mio amico maus
mi ha insegnato ad usare blogspot. E' cominciata lì questa avventura web.
Come t...
Open that damn car door, Harvey
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[image: Image Hosted by ImageShack.us]
Io uso Second Life per fare quello che nella mia vita vera non posso
proprio: volare come un uccello, costruire edi...
La fine arrivò un venerdì mattina di fine gennaio.
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Senza esplosioni o clamori. Così come arrivano le cose peggiori:
silenziosamente. La Nation Wide Bank smise semplicemente di rispondere alle
telefonate d...