PARTE TERZA: “incoerenza strutturale”
Ho passato dunque in rassegna due tipi di metafore, nelle quali a mio avviso si cela una possibile “spiegazione parallela” dei rischi narrativi che qualsiasi scrivente potrebbe correre, affrontando ogni occasione di scrittura. Non importa se alta o bassa, impegnata o dai toni più leggeri: dico proprio ogni genere di scrittura, dal racconto, al romanzo, dall’articolo di giornale, al semplice commento su internet, dal saggio filosofico, al biglietto di auguri Natalizio, e così via.
Nel caso della “pornografia narrativa”, l’inganno si nascondeva nella quantificazione della realtà. Parlando di “ipocrisia pubblicitaria”, l’ambiguità sbucava fuori da una certa tendenza a rivolgersi al lettore come a un individuo caratterizzato da un animo puramente emotivo, in grado di “ragionare” solamente “di pancia”.
La terza variante della metafora in un certo senso integra e completa le prime due. Essa attinge le proprie riserve immaginifiche dal mondo dell’architettura, e più in generale, dal concetto di progettazione di oggetti. Per questo definisco tale fallace propensione a scrivere, assimilandola a certe forme di “incoerenza strutturale”.
Sin dai tempi antichi, la sensibilità dell’uomo ha portato a precisare il concetto di buona “progettazione di cose”, orientandosi su tre coordinate fondamentali, enumerate poi nell’ambito della civiltà romana da Marco Vitruvio Pollione (80 a.C. – 15 a.C.), uno dei primi teorici di tale disciplina che la storia ricordi. Quando si concepisce un oggetto, sia esso una casa o un comodino, un transatlantico o una spilla da balia, non si può prescindere da nessuno di questi ingredienti: la “utilitas” (utilità); la “firmitas” (traducibile molto liberamente con “capacità di reggersi in piedi”); la “venustas” (bellezza). A mio avviso il discorso è estensibile a ogni forma di espressività umana, sino a coprire anche quelle più gratuite ed eteree, come possono essere certe forme di “arte per l’arte”. A maggior ragione dunque si attaglia bene alle questioni di scrittura.
Anche la più folle, e surreale, e gratuita, e disincantata, e disinteressata forma d’arte, nasce con un suo scopo. Non fosse altro che per la pura volontà di esistere come opera in se stessa, o di affermare la gioia, la disperazione, la meraviglia dell’artista che la realizza, c’è sempre un forma di “utilità” ricercata (intendendo naturalmente il termine “utile” nella sua accezione più estesa possibile, non limitata ai semplici fini pratici). Ecco giustificata dunque l’imprescindibilità della “utilitas”.
Inoltre, anche la più immateriale delle espressioni artistiche, ha bisogno “stare in piedi” in qualche modo. Un taglio di Lucio Fontana, ad esempio, che è forse la massima esaltazione del confronto col concetto di vuoto, non si potrebbe esprimere senza la tela che lo circonda, senza i vari colori, o la cornice o telaio che regge la tela, ecc. Non si dà nulla allora di esprimibile, condivisibile e trasmissibile, senza la “firmitas” (forse soltanto il pensiero puro può farne a meno, ma pagando l’irrimediabile prezzo di rimanere per sempre isolato dentro la mente che lo sta pensando).
Infine, anche la più pratica, la più calcolata, la più ragionata, la più fredda, misurata, computata, la più quantificata delle concezioni di un oggetto, non potrà mai fare a meno di una sua quota di “venustas”. Sempre se si intende, anche in questo caso, la bellezza nella sua estensione di senso più ampia. Ossia, la bellezza come naturale propensione, insita nella sensibilità umana, ad attribuire “significati empatici” alle forme con le quali si ha a che fare. L’uomo non può farne a meno: di fronte alla forma di un oggetto, sente nascere in se stesso spontaneamente un qualche moto di adesione o di repulsione. Il percepire un qualcosa come entità estesa in uno “spazio” (sia pur esso anche lo spazio immateriale dell’immaginazione), fa scattare il desiderio di confronto tra quel “qualcosa” e la propria identità di “oggetto spaziale umano”.
Ho portato i tre ragionamenti ai loro estremi, per cercare di dimostrare l’irrinunciabilità delle tre componenti fondamentali. Se il discorso vale allora per i casi limite, a maggior ragione sarà valido per le dimensioni più “normali”, come può essere quella dello scrivere. Se il trio di ingredienti (espressivi-concettuali-strutturali) non è ben armonizzato ed equi-distribuito nell’atto della scrittura, ne risultano aberrazioni e scompensi di ogni tipo. Se c’è eccessiva preoccupazione per la “venustas”, si ritorna in qualche modo al caso della “ipocrisia pubblicitaria”. Se l’accento è calcato in modo spropositato sulla “utilitas”, ritroviamo una forma di “pornografia narrativa”.
Se invece si esagera nel dare importanza alla “firmitas”, abbiamo il caso specifico che la terza metafora della “incoerenza strutturale”, più propriamente vuole esprimere. Abbiamo in altre parole, una situazione espressiva di scollamento fra contenuto e forma. La forma diventa un orpello malamente incollato sopra alla struttura, un apparato scenografico aggiunto in maniera maldestra, una cortina di cartapesta posta sopra al sottostante impianto di cemento armato. Questo accade nella scrittura, quando le parole suonano come una superflua spettacolarizzazione, un apparato teso più a stupire, che non a rendere giustizia all’armonia che sempre dovrebbe sussistere fa “sostanza” del dire, e “modalità” scelte per dire.
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